“Rugby Rovigo Capitale” e “Una città in mischia” di Luciano Ravagnani


25/02/2010

Immenso ‘big Luciano Ravaagnani’, da leggere e rileggere la sua Rugby-Story. Dalla prefazione del presidente Lino Rizzieri a quella di Giancarlo Checchinato. Pubblicato da “la Guida Editrice” nel 1979 , il “Rugby Rovigo Capitale” ( 140 pagine)  è stato precursore del secondo libro di Luciano Ravagnani ( 170 pagine) , pubblicato quando l’ufficio di presidenza della “Colli Euganei – Rugby Rovigo -1987-88 era ‘smile’ a pagina 5 con, da sinistra, Ludovico Goggia, segretario generale; Luciano Berger vice presidente; Giancarlo Checchinato presidente; Enrico Suriani vice presidente; Giuseppe Favaretto direttore sportivo.

Detto che Luciano Ravagnani, all’epoca, si interessava di rugby già da quasi trent’anni ed aveva seguito la Nazionale in più di 100 partite, ci piace ribadire quanto precisato by libro, e cioè che “Ravagnani è stato tra i fondatori del periodico “All Rugby”, è direttore de “Il Mondo del rugby”, è autore dell’annuario “Tuttorugby”. Ha scritto “Azzurro nel Sud Pacifico!, “Rugby, Rovigo Capitale e i testi di “Rugby come Rovigo” e di “Rugby, ragazzi!”, libri fotografici.
Detto che il sottotitolo del libro “Una città in mischia”  è  significativamente “Mezzo secolo di rugby a Rovigo” va altresì segnalato che a piè di copertina è indicativa la dicitura “ storia in cifre di Gianni Colosetto” un altro guru del rugby scritto , avendo tra l’altro dato alle stampe l’esemplare “Rugby razza Piave” ( assieme a Nicola Bizzaro) per i 25 anni di rugby sandonatese.

Ha scritto in premessa Giancarlo Checchinato:<< La coesistenza tra città e Rugby – sembra ammonire Ravagnani – è la personalità stessa di Rovigo. La sua sorte è una sola: quella di continuare ad interpretarla e a perpetuarla nel tempo>>. Un concetto che a Rovigo sembra destinato a tramandarsi di padre in figlio, come peraltro è successo in casa Checchinato con l’arrivo di Carlo, team manager della nazionale Italiana nel Terzo Millennio.
Per tutto questo, viaggiando in slalom dentro questo canovaccio, abbiamo onorato i pensieri di Ravagnani e le opere del rugby inserendo le foto dei ‘nostri polesani nel mondo.

Vale a dire quelle di Ravagnani con i ‘Signori del Rugby alla Romanina ( da sx, Sigolo, Checchinato senior, Ravagnani, Raisi, Toniolo, Malfatto, Zanato, Checchinato), quindi quelle del Rugby Rovigo dei tempi storici ( compresa la foto di Maci Battaglini assieme a Tullio Biscuola maratoneta e a Giusepppe mantovani) e quella del Rugby Rovigo moderno ( con la Susanna Vecchi , il suo team e Francesco Zambelli family al Majestic Stadium dove i ‘bersaglieri’ hanno incontrato i London Irish) , quella del campionissimo Naas Botha, quella della squadra, quella della tifoseria che ha riempito la tribuna ‘Battaglini-Quaglio’ nel big match col Viadana, dove le ‘dancing girls’ hanno volteggiato assieme al portafortuna ‘Bergagliotto’. Fino all’omaggio finale per Ravagnani, nella sua Costa, col sindaco Antonio Bombonato al microfono , presente Renzo Ulivieri, nel giorno della presentazione del libro sul Costa – Calcio di cui abbiamo già recensito sulla rubrica Memoria & Futuro, sempre su questo sito www.polesinesport.it .

Ma per rappresentare al meglio le motivazioni e le aspettative del libro sul ‘mezzo secolo di rugby a Rovigo’ ci affidiamo totalmente a Luciano Ravagnani e  a quanto ha scritto lo stesso autore nella prefazione, per lui ovviamente titolata “Una città in mischia”. …
PRESENTAZIONE by LUCIANO RAVAGNANI/ Mezzo secolo di rugby a Rovigo
Mezzo secolo di rugby a Rovigo, cinquant’anni di sport e d’ambiente, di un gioco e di una città. Rugby, una città, ha dato il nome ad uno sport; rugby, uno sport, ha dato un nome a Rovigo.
Le pagine che seguono, moltissime inedite, altre ricavate da una precedente pubblicazione, aggiornate e riviste, preferirei , comunque, chiamarle <<una>> storia più che <<la>> storia.
Il rugby mi ha coinvolto fin da quando ero bambino, senza che ne avessi grande merito, distogliendomi da altri sport. Non l’ho cercato, il rugby; è venuto a scovarmi. E’ questo il grande, impagabile pregio del rugby a Rovigo: se non vai da lui è lui che viene a cercarti e sollecitarti, perché è l’anima di una città. E non si può ignorare l’anima di un corpo in cui si vive.
Ho visto la prima partita di rugby a dieci anni, era finita da poco la guerra. In quei tempi vedere lo sport non era facile per un ragazzino. Lo sport, come molti dei miei coetanei, lo leggevo nel racconto dei giornali (e non mi piaceva, anche se mi attirava per voglia di sapere, quel modo di scrivere di agonismo); lo sentivo negli enfatici servizi della radio, spesso fantasie di ignoranza tecnica; lo sognavo nella descrizione dei pochi fortunati amici che, di tanto in tanto, assistevano ad un avvenimento.
Il primo incontro! Una partita feroce tra Ginnastica Torino, che avrebbe vinto lo scudetto, ed il Rovigo.

Vidi giocare Maci Battaglini. Il rugby mi colpì. E’ un gioco di fronte al quale, per quasi nulla partecipazione, mi sono sentito spesso indifeso; sempre alla ricerca di un motivo e di risposte ai molti perché. Decisi di dedicarci del mio tempo, all’inizio per curiosità quasi morbosa, poi per puntiglio professionale. Ho dovuto dedicargliene molto più del previsto, dapprima perché mai soddisfatto delle pur faticose scoperte ( si è sempre scritto poco, di rugby, in Italia), successivamente per comprenderne la storia, la filosofia, il linguaggio, gli ambienti, gli aspetti sociali ed anche le spinte religiose.
Frammenti di queste ricerche li ho trovati sorprendentemente sovrapposti alle ricerche per il mezzo secolo di rugby a Rovigo.
Scrivendo <<una>> storia non era possibile sfuggire alle suggestioni di una interpretazione un po’ darwiniana, cioè <<moderatamente biologica>>, dei tempi. Come erano gli anni un cui il rugby arrivò a Rovigo? Secondo le conoscenze, la cultura e il vivere concreto di quei tempi soltanto apparentemente di grande euforia, cosa significava giocare a rugby nel 1953? E cos’era il rugby?

Nel secolo delle comunicazioni, il nostro secolo, il mondo s’è fatto villaggio, ma ciò è accaduto di recente ed in modo traumatico. Adesso giocare a rugby potrebbe essere una modo ( recentemente alcuni sport in Italia lo sono diventati, frutto quasi esclusivo di immagine e di subdole persuasioni pubblicitarie).  Ma in quei tempi, più di mezzo secolo fa, cos’era a muovere il desiderio di rugby di Davide Dino Lanzoni, poco più che diciannovenne studente, e dei suoi amici incontrati in un giorno di marzo accanto al muro di cinta dell’ippodromo comunale?

Ufficialmente il rugby in Italia aveva sei anni, ma nessuno ne sapeva molto; anche pronunciarne il nome non era semplice.
Nel 1929 si era giocato il primo campionato italiano, ma bisogna ammettere che c’era molta velleità in questo <<italiano>>. Si fece tutto in quaranta giorni e a quel primo campionato parteciparono sei squadre in rappresentanza di Roma, Milano, Torino, Brescia, Padova e Bologna: la capitale e la Val Padana; si e no cento giocatori impegnati. Il rugby era tutto qui ed i campioni furono i giocatori dell’Ambrosiana Milano, più tardi Amatori. Di tutti i tentativi fatti dagli anni attorno al 1910 per dare una parvenza di organizzazione alle estemporanee iniziative ( le squadre si costituivano e si scioglievano nello spazio di pochi mesi), nessuno aveva avuto successo.

Quando il rugby arrivò a Rovigo, sei anni dopo quel primo campionato, la situazione non era granché cambiata anche se nel Veneto, oltre che a Padova, si giocava già a Treviso e Venezia; anche se i campionati si disputavano ormai regolarmente e la GIl, l’organizzazione della gioventù fascista, aveva messo gli occhi su questo sport che poteva fare piazza pulita di << …giovani superimbottiti di nozioni di calepino o di teorie filosofiche … di adolescenti cresciuti fra una tisana ed un ricostituente, malati di malinconie crepuscolari, viventi fra la bambagia morale e l’infiacchimento del corpo>> per premiare invece quelli <<…forgiati alla vera essenza della vita: forza, coraggio e intelligenza>>.
I presupposti che accompagnavano il diffondersi del rugby erano chiari ed aderivano all’ottica del regime di allora. Machiavellicamente il fine giustificava perfino l’accettazione di una disciplina sportiva di marchio spiccatamente britannico. Con le necessarie modifiche d’origine, ovviamente.

Fu proprio in questo periodo, a giudicare su quanto ci è stato tramandato, che la ricerca storica sul rugby destinata ad alimentare un minimo di pubblicistica, si impegnò con tutte le forze per dimostrare, sempre sulla base di un pressoché totale rifiuto della cultura che non fosse umanistica, che il rugby era nato in Grecia e che furono le <<aquile>< romane a diffonderlo attraverso l’impero ed anche in Gran Bretagna, <<…dove il primitivo gioco del pallone attraverso lente evoluzioni si trasformò di lì a poco…>>
E’ sicuro che in Dino Lanzoni ed i suoi amici non c’era l’intenzione di esaltare <<… questo gioco ove i virtuosismi personali, aridi e talvolta inconcludenti, scompaiono nello svolgersi di una trama d’azione in cui mirabilmente si fondono i valori fisici e psichici ed in cui la chiave del successo ha un nome: cooperazione>>, come si può leggere nella prefazione del primo manuale di rugby apparso in Italia nel 1928. Intendevano soltanto  <<fare>> una squadra e dello sport. In anni in cui l’Italia si apprestava all’avventura africana, alla conquista dell’unico paese di quel continente non ancora toccato dal colonialismo, l’Etiopia, i ragazzi dell’ippodromo cominciavano con la loro avventura in un mondo sconosciuto.
<< Lo sport non è un fine – ha scritto il giornalista Giorgio Lago – ma soltanto un mezzo, uno degli strumenti più piacevoli per entrare senza traumi nella vita, che a volte ti fa sentire fisicamente fragile ed a volte psicologicamente delicato. Lo sport punta al muscolo ed al cervello; quando funziona riesce ad irrobustire entrambi>>.
Il rugby a Rovigo? Il gioco delle università inglesi nel Polesine?
Il rugby non è un gioco italiano. Non lo è per l’anima agonistica, non lo è per educazione, non lo è per disposizione al sacrificio. Forse non lo è nemmeno per ambiente culturale  e geografico. Però è uno sport che piace agli italiani che lo conoscono. I suoi detrattori, tutto sommato, sono pochi, quasi sempre interessati o volutamente malevoli. Coloro che lo rispettano, anche senza conoscerlo a fondo, sono i più. Adesso che è uscito dal mito di sport difficile, adesso che ha etichette di sport violento più sfumate per coloro che ne sanno leggere il messaggio, l’adesione sta aumentando, la partecipazione è più convinta.

Ma nel 1935 se ne sapeva poco, praticamente nulla. E molte di quelle domande così lontane dalla nostra crescita sportiva vengono poste anche oggi.
Mezzo secolo fa gli sport <<facile>> erano il calcio, già campione del mondo, ed il ciclismo esaltante dei Girardengo, Binda, Guerra, Piemontesi, ecc. Il calcio, sport di acquisizione britannica ( figlio del rugby, come vedremo) era già molto diffuso; il ciclismo era veramente popolare, grande e genuino sport nazionale. Tutto il resto appariva sofisticazione di non rilevante impatto o stravaganza di coraggio pionieristico non disgiunto da considerevoli mezzi economici ( scherma e ginnastica fra i primi; automobilismo e aviazione fra i secondi). L’atletica stessa doveva ancora essere scoperta dalla massa ( avverrà soltanto in anni recenti con il diffondersi delle marce non competitive); il pugilato era disperata esistenza agonistica e di <<nobile arte>> aveva poco, se non la nobiltà che può derivare dalla ricerca della quotidiana pagnotta.
Cos’è il rugby? Perché il rugby? Bisogna cominciare così:<<C’era una volta…>>. Perché la sua nascita è una favola; una favola che la realtà moderna non riesca a cancellare, arricchendola anzi di significati sempre nuovi.
C’era una volta, dunque. Per la verità poco più di 160 anni fa. Nel 1823, in un collegio inglese i ragazzi, durante l’ora di ricreazione, stavano giocando con il pallone.

Chissà mai che pallone era; chissà mai a che gioco giocavano. Le cronache di allora riportano trattarsi di <<football>, un termine che non ha certo il significato odierno. In effetti un gioco che era una grande zuffa, con regole rozze. <<Quelle> regole caratterizzavano <<quegli>> scontri. Il college in questione era quello di Rugby, una città del centro dell’Inghilterra. Ne deriva che si giocava a <<Football Rugby>>, cioè secondo le regole in uso in quel collegio. In altri college, in altre università si giocava con norme diverse, spesso condizionate dagli spazi dedicati allo <<sport>< degli allievi. Nei luoghi lastricati era privilegiato, ovviamente, il gioco in piedi. A Eton si giocava tra il muro di cinta del college ed il fiume e ne nacque un gioco particolare.
In quel pomeriggio di autunno del 1823, nel quale la favola fissa la nascita del rugby, non accadde probabilmente niente di particolare, se non una delle tante e ricorrenti dispute sull’interpretazione di una regola, ma un ragazzo di origine irlandese, William Web Ellis, in quel giorno avrebbe fatto qualcosa di strano, comportandosi sul campo come un ribelle. Probabilmente una reazione istintiva ad un gioco noioso oltreché abrasivo. Più tardi quel gesto, se mai fu fatto, divenne l’atto di nascita del <<football Rugby>>.

Leggenda a parte, quel modo di giocare trovò non pochi aderenti, si diede le prime regole scritte di un gioco di squadra con la palla, generò scismi e divisioni, <<causò>> la nascita del calcio moderno che gli inglesi chiamano <<soccer>>, accentò la forma ovoidale del pallone stretto al petto durante la corsa, fino a farne un segno distintivo.
Il rugby cominciò a girare il mondo molto presto, bagaglio appresso dell’impero britannico, e restò sempre fedele alla sua origine di sport da combattimento.
<<Fenomeno vivente e umano; nel quale la vita comanda e l’ordine naturale precede l’ordine logico>> lo hanno definito in tempi recenti i francesi.
Giocare a rugby significa affrontarsi in maniera virile.
A differenza di altri sport è privilegiato il contatto con l’avversario e nessun altro gioco ha una così spiccata libertà di contatto.
<<Da sempre – diceva lord Wavel Wakefield, mitico personaggio del rugby inglese – gli uomini hanno giocato a battersi. Il rugby consente loro di farlo nel rispetto delle regole. E’ un gioco duro ed è questa la sua virtù principale>>.
Oltre che duro ed aspro, è un gioco difficile. Ma se non fosse così non sarebbe uno sport diverso; rischierebbe soltanto doti atletiche e quasi niente virtù.
Invece, per non infrangere il muro di carta tra la virilità e la brutalità, ad un rugbista è chiesto di essere coraggioso, generoso, altruista, forte, sereno. Tante virtù da un uomo non si possono pretendere sempre. E’ per questo che a volte il rugby degenera. Fa parte del gioco, così come le esplosioni di violenta fanno parte della vita.
I rapporti tra rugbisti non sono sempre angelici, però non c’è niente che avvicini un uomo all’altro come il rugby. Sono la complessità apparente delle regole e di quell’incomprensibile obbligo di avanzare passando indietro la palla, il rugby è in effetti lo sport meno artificiale che esista. Non è fuori della vita, ne è anzi il prolungamento, una dilatazione. In questo gioco il protagonista è l’immagine di quel che vorrebbe essere. E’ raro che il buono ed il cattivo, il dott. Jekill e Mr Hyde, entrino nella stessa maglia.

Per il rugby de definizioni si sprecano. Uno sport, una religione, una passione, una confraternita, un fatto educativo, una religione, un modo di vivere, una questione di umori, una battaglia, un motivo per picchiarsi. Lo scrittore David Storey dice che <<…è un gioco per buoni sportivi di tutte le classi ma non un gioco per un cattivo sportivo a qualsiasi classe appartenga>>.
Fuori dell’enfasi, il rugby non è tutto questo, ma è certo un po’ di tutto questo.
In ogni caso è diverso. A tal punto diverso che la diversità è scambiata per complessità e la tradizione, che è la sua anima, per abitudine. Non è popolare e non ha la diffusione né del calcio né del basket, ma si gioca in tutto il mondo. Ed ogni Paese, ogni regione, ogni città, ogni club ha espressioni particolari, <<accenti>> di rugby personalizzato, il che non fa che aumentarne il fascino. Il rugby è un gioco che non so finisce mai di conoscere.
Nato come gioco di squadra, dove una squadra si intendeva un’intera classe o, addirittura, un intero college, il rugby è in effetti l’esaltazione del collettivo.
<<Non ci sono giocatori di rugby, ci sono soltanto in termini propositivi, la storia del rugby.
C’è però anche un microcosmo di individualità che è una rappresentazione della vita: il potente sfonda, il piccolo s’infiltra, l’alto salta, il guizzante corre. In una squadra di rugby c’è posto per tutti, ma la solidarietà, il mutuo soccorso, la lotta ravvicinata necessari all’esprimersi compiuto del gioco, sono essenziali e si sono trasformati in pregevoli elementi educativi.
Soli depositari del gioco, perché soli attori, i ragazzi del college di Rugby hanno trasmesso il loro codice ed i loro comportamenti di generazione in generazione, attraverso il mondo, ed in ogni generazione ha restituito tutto ciò che la precedente aveva tramandato con le modifiche derivanti dai nuovi costumi, dai nuovi stili di vita, da conoscenze approfondite e da creazioni personali.

In questo modo il <<vecchio>> rugby è potuto restare un gioco moderno, attuale e nel tempo stesso anacronistico se valutato alla luce della civiltà dei consumi e del benessere come rifiuto del sacrificio e della battaglia. Per questo, forse, quando ha cominciato ad occuparsene la sociologia è stato un amore a prima vista; l’aggressività controllata e la funzione <<socializzante>> del gioco sono state, e sono, le basi di questo interesse. Si è detto, e non è certo esagerato per il metro del giudizio di quella cultura anglosassone che è sempre un po’ sfuggita alla valutazione umanistica, che il rugby <<…ha suggerito di guardare le statue elleniche con un altro occhio dopo secoli di codificazione della bellezza>>. La bellezza nuova è forse quella del movimento dell’uomo nella lotta?
Arthur Honegger, grande musicista, nella sua sinfonia <<Rugby 1928>> tendeva ad opporre, sono le sue parole, <<…alla progressione quasi matematica della macchina la diversità del movimento umano, i suoi bruschi slanci, i suoi arresti, le sue volate, i suoi rallentamenti>>.
Il rugby era gioco nel quale aveva identificato tutto ciò.
Nato fra gli studenti, diffuso dagli studenti, frutto di una casta, il rugby è diventato sport universale senza che nessuno abbia saputo mai, finora almeno, spiegarne convincentemente il motivo, se non con una straordinaria capacità di adattamento. Allo studente inglese si sono aggiunti il minatore del Galles, l’allevatore della Scozia, il vignaiolo dle sud della Francia, il fantasioso isolano delle Figi, il pioniere dell’out back dell’Australia, l’agricoltore della Nuova Zelanda, il figlio del fazendero dell’Argentina. Ed in Italia, dalla grande città è passato a trovare hunus vitale in provincia. A Rovigo come l’Aquila, a Parma come Treviso ed a Padova.
Unico filo conduttore il particolare approccio al gioco, la disponibilità al sacrificio ed al collettivo, il rispetto per l’avversario prima ancora che per le regole. In breve, una cultura sportiva naturale.
Così a poco a poco il rugby ha <<avvolto>> il mondo. In alcuni luoghi ha trovato il trionfo, in altri è rimasto nell’ombra, ma non ha mai abdicato agli spazi occupati per precisa scelta di suoi adepti.
Secondo i francesi, che per il fatto di averlo acquisito con innegabile successo fino a <<farne>> un fenomeno sportivo, ne sono stati i più attenti studiosi, giocare a rugby è diventato un modo per vivere. Ma forse è soltanto un modo di giocare vivendo, il che giustifica ampiamente lo sviluppo o le difficoltà, i momenti storici o le crisi.
I protagonisti, più o meno consciamente, sanno di far parte di gente che esprime lo stesso entusiasmo giocando in uno dei sacri templi, come può essere il maestoso stadio inglese di Twickenham, o davanti a poche decine di persone su un pietroso campo di periferia. Un culto della <<impersonalità>>, coltivato fra pregi e difetti che ogni rugbista vero si porta addosso, è una garanzia per il futuro.

Quanto di tutto ciò, che pure è infinitesima parte del pianeta-rugby, è entrato a far parte della vita e del costume di una città alla quale questo gioco ha regalato alcuni dei suoi non numerosi momenti di intima gioia?
Il rugby arrivò a Rovigo in maniera banale. Ad accoglierlo non ci fu un club britannico dove tutto è puntigliosamente e minuziosamente tramandato ai posteri; e nemmeno la trattoria o l’osteria, luoghi di nascita comuni nella tradizione sportiva italiana. A Rovigo fu soltanto un pallone e tanta curiosità e in seguito l’impegno gestionale di Davide Lanzoni che andò a caccia di maglie, di regolamenti, di statuto, di soldi, di un presidente, ed anche di giocatori dato che fu difficile, sul momento arrivare a quindici.
Il Rovigo rugby paradossalmente si trovò cresciuto senza essere ufficialmente mai nato. In questo spirito di avventura, nel vivere giorno dopo giorno come nella filosofia della frontiera americana, sono le basi dell’adesione cittadina. Nessun dubbio in tal senso: due anni dopo quel marzo 1935, già le cronache locali dei giornali scrivevano di <<patrimonio cittadino>>, di <<nostri impavidi Bersaglieri>>, di <<orgoglio del Veneto della pallaovale>>. 
Willie McBride, irlandese, uno dei più grandi giocatori nella storia di questo sport, ha detto:<<Il rugby è trenta uomini che rincorrono un sacco di vento>>. Una frase che contiene una filosofia di vita, aderendo al gioco come nessun’altra.
A Rovigo a questo <<sacco di vento>> hanno dato subito una grande importanza, imboccando tracciati di crescita inediti e mai ripetuti in Italia, spontanei quanto decisivi: la città sportiva è cresciuta con il rugby e non viceversa.
E’ stato il rugby a trascinarla.
E come tutte le cose naturali, Rovigo ha vissuto il suo rugby a seconda delle contingenze, con entusiastica partecipazione o con avvilenti cadute di umore, ma senza la presunzione di far entrare nella storia i momenti felici e con il pudore il dramma nei giorni del buio.
Per questo motivo è risultato difficile, molto difficile, percorrere il mezzo secolo di rugby a Rovigo e di Rovigo nel rugby. Per questo <<Una città in mischia>> va considerato <<una>> storia e non <<la>> storia.
Non sono pochi gli anni nebulosi che hanno fatale incidenza nella completezza del racconto. I primi anni hanno scarse testimonianze. Anche allora, come oggi, per aver poche righe su un giornale, notaio del tempo, era necessaria una sorta di credibilità sportiva. La potevano offrire quei giovani amici di Dino Lanzoni?
<<Non potevamo pensare di darci una storia – ha detto Lanzoni – perché nessuno pensava di fare qualcosa che meritasse di essere registrato>>.
Poi c’è stata la seconda Guerra Mondiale, la frantumazione del ricordo, l’accavallarsi di avvenimenti senza tempo. Per caso fortuito s’è scoperto un campionato di serie A, quello del 1940-41, disputato dal Rovigo per poco più della metà e concluso con un amaro ritiro. Praticamente nessuno lo ricordava e nella ricerca non ci sono state molto d’aiuto le raccolte dei giornali, diario di giorni difficili nei quali la propaganda di guerra si alternava alle disposizioni alimentari sovrastando l’informazione.
Dopo la Guerra i momenti incerti della lenta rinascita, decine e decine di giorni vuoti di giornali per scioperi drammatici, nessun documento da consultare, né in quel che è rimasto fra le carte polverose della società rossoblù, né in quel che è rimasto in Federazione. I rugbisti, per certi aspetti, hanno dilatato il <<rifiuto>> italiano della storia recente, come temessero il confronto al cospetto di un passato monumentale.

L’esordio in campionato con 14 giocatori; l’apprendimento di un gioco meno istintivo e più ragionato attraverso le nozioni tecniche di un milanese dal cognome famoso, Campagna; la rivoluzione tecnica portata dal Rovigo nei canoni del gioco come era inteso in Italia a cavallo della Guerra; il lievitare di un rugby da combattimento e di potenza; l’osmosi di passione tra il centro della città e la periferia; lo sviluppo di una coscienza di valori sportivi provinciali in antitesi addirittura esemplare con il <<provincialismo>> deleterio delle grandi città, che hanno sempre gestito il rugby senza averne gli umori e che stavano perdendo il primato; la battaglia per un po’ di azzurro che premiasse il valore dei giocatori e non i giochi di potere sportivo. Sono queste alcune delle prime tappe di <<una>> storia.
Successivamente l’entrata nel libro d’oro dello sport italiano. Nove scudetti per una città come Rovigo, per una provincia come il Polesine, sempre marginale, tranne rarissime eccezioni, nella partecipazione alle glorie azzurre, rappresentano un monumento nella storia italiana del rugby. Il modificarsi di un ambiente e di un modo di giocare, l’arrivo dei grandi maestri, l’esplosione delle nuove generazioni che hanno preso la staffetta di vecchi rossoblu del mito, il campo intitolato a Maci Battaglini, diventato per anni sede permanente della Nazionale e Rovigo la vera capitale rugbistica, sono fatti di cronaca, comunque importanti.
Raccontare tutto non è stato possibile, Mezzo secolo è trascorso con il contributo di quattro generazioni rugbisti che, con centinaia di giocatori e dirigenti, con migliaia di avvenimenti, attraverso 43 campionati di serie A e di circa mille partite. La scelta si è orientata sui momenti ed i personaggi che hanno segnato un’epoca e che hanno dato vita a quindici capitoli. Ma nessun capitolo è più importante dell’altro, proprio come i quindici giocatori di una squadra.
Durante la ricerca abbiamo incontrato sovente giocatori dai cognomi singolari. La necessità di giocare in incognito affinché il rugby non diventasse motivo di licenziamento dal lavoro o denuncia per finta malattia, hanno sovente scatenato la fantasia ( di Giordano Campice, sopra tutti) dei nomi d’emergenza. Sì, anche il rugby Rovigo ha avuto le sue <<catacombe>>  a far da contrasto con le commoventi partecipazioni popolari. Alcuni di questi nomi sono rimasti purtroppo nei dettagli.

Dopo la conquista del primo scudetto una sottoscrizione de <<Il Gazzettino>> portò nelle tasche di Maci Battaglini e dei suoi amici, tutti dilettanti ( dilettante spesso significava anche disoccupato) la somma di centomila lire, all’incirca cinque milioni attuali. Non è la somma che conta, pur rilevante per la Rovigo di quei tempi, ma è importante constata tre che fra i sottoscrittori ci fu anche Ercole Ponzetti, più tardi presidente della società ed a quei tempi giovane giocatore, che pure era tra i neo campioni d’Italia. Offrì duecento lire ai suoi compagni per sentirsi più vicino a loro e ad una passione cittadina che aveva vinto la sua prima mischia. Molti anni dopo, mutati i tempi, sarà Giancarlo Checchinato forse nato dirigente prima che giocatore di rilevante qualità, a riprendere lo spirito di Ponzetti diventando vicepresidente-giocatore e quindi presidente. Ma quelli di Ponzetti e Checchinato sono soltanto due esempi emblematici di tutti quei dirigenti, ex giocatori o soltanto appassionati, che hanno cementato le fondamenta del Rovigo.
In questa <<storia>> , come in quella di otto anni or sono, mi son chiesto: scrivere soltanto di Rovigo e del Rovigo o cercare anche di penetrare nell’evoluzione del suo rugby? La risposta non poteva essere diversa da allora: capire il Rovigo senza sapere del suo gioco sarebbe risultato molto più problematico. Mi sono affidato al racconto di alcuni protagonisti, alle relazioni ed agli articoli di Julien Saby, ai concetti di un rugby soprattutto di uomini di Carwyn James ed alla mia memoria.
Sempre restando al rugby giocato non mi sono soffermato più di tanto sui cosidetti derby veneti che pure sono la parte forse più importante nella storia ovale italiana ( e che meriterebbe la loro storia) , perché  m’è parso di percepire una divulgazione ed una divulgazione dello spirito rossoblu che va ben oltre le straordinarie espressioni di passione in occasione degli scontri con il Petrarca o con il Treviso.
Dalle cifre, che sono nella seconda parte del libro, sarà facile constatare che nessuna squadra importante nella storia quasi sessantennale del rugby italiano, può vantare nei confronti del Rovigo più vittorie di quante non siano state le sconfitte. E’ un dato che dice tutto. La squadra <<più grande>> finora espressa dal nostro rugby non può che essere patrimonio comune. I grandi avversari, ai quali forse può non essere toccato l’elogio che sicuramente meritavano, si riconosceranno proprio in queste cifre.
Questa lunga introduzione non può non concludersi con un ringraziamento a coloro che hanno reso possibile <<Una città in mischia>>. Grazie a tutti i rossoblu, di ieri e di oggi, protagonisti di una recita che continua e li vedrà sempre attori. Un grazie particolare a Giancarlo Checchinato: mi ha quasi costretto a scrivere questa storia, coinvolgendomi nella <<mischia>>. Devo ammettere che è stata una piacevole costrizione. In fondo meno faticosa di una partita di rugby.


Luciano Ravagnani 

                                     Replay by www.polesinesport.it