A Costa il calcio...una storia, nel libro di Luciano Ravagnani


Tra le altre cose, il giornalista Luciano Ravagnani gran esperto di rugby ( vedi nella foto gruppo alla Romanina Country da sx, Sigolo, Giancarlo Checchinato, Ravagnani, Raisi, Toniolo, Malfatto, Zanato, Carlo Checchinato) sarà nella storia per un libro dedicato alla storia del CALCIO giocato al suo paese d’origine: Costa.

Tra l’altro alla presentazione del libro c’era anche Renzo Ulivieri al tavolo dei relatori , assieme al sindaco Antonio Bombonato, uno che le cose le conosce dal di dentro per essere stato anche dirigente di un Costa protagonista anche a livello veneto. Ma di questo ne parleremo specificatamente a tempo debito nella rubrica ‘sequenza’ Campioni & Signori.
Invece voglio mandare a ‘Memoria & Futuro’ ciò che proprio Luciano Ravagnani ha scritto ( datato 31.07.2004) come PREFAZIONE al libro “ A Costa il calcio …1926-1995 … una storia”.
Perciò eccoVi “Una storia nella storia”, appunto nella PREFAZIONE scritta da quel Ravagnani che tra l’altro è stato giornalista accreditato a due Olimpiadi.

Prefazione al libro “A Costa il calcio...1926-1995...una storia...”
A Costa, il calcio raggiunge il massimo livello gerarchico della sua storia poco più di mezzo secolo fa. Nel 1952-53 gli azzurri dell’AC giocano il campionato di Promozione, quando la Promozione era la quinta serie italiana, e lo ripetono l’anno successivo. E non é una presenza trascurabile.
Una squadra solida, con tutti i suoi “campioni” di casa, un numero notevole di giocatori “foresti”, un allenatore padovano che é uno slogan del modo di giocare (Battaglia, si chiamava) ed un incredibile – per quei tempi - pubblico di appassionati.
Costa per alcuni anni é un punto di riferimento del calcio minore del Polesine, una provincia peraltro priva di vertici apprezzabili.
Una squadra temuta, una società organizzata (per quei tempi) ed in qualche modo anticipatrice di quel che sarebbe stato più tardi un costume, cioè il totale superamento del campanile, della cosiddetta squadra fatta in casa. Costa, quanto é ostica ed intrattabile per chi ci viene a giocare da avversario, tanto é ospitale e coinvolgente per chi veste la maglia azzurra, venga dalla vicina Rovigo o dalle province di Padova, Venezia, Ferrara, Verona.
E’ il tempo, ancor così vicino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel quale i giocatori formano una sorta di compagnia di ventura che si avvantaggiano della voglia dilagante di calcio competitivo e vincente, per “vendersi” – dati i limiti di tesseramento ancora da definire – ai migliori offerenti, alle necessità più evidenti.
C’é da sempre voglia di calcio a Costa; gli anni Anteguerra hanno tramandato poco da ricordare. Alla nascita, che ha una data alquanto incerta, tra il 1925 e il 1926 (Rovigo disputò il suo primo campionato, terza categoria, nel 1927), sono anni nebulosi. Il solito, ricorrente problema del campo da gioco, attività saltuaria, quantomeno non documentata, fin quasi agli Anni Quaranta. Poi ricordi vaghi, normalità paesana, si direbbe.
Tutto, comunque, nell’ottica del regime del tempo, con le gerarchie sportive nettamente subordinate alle gerarchie comunali. Chi ha il podestà più in vista ed i gruppi giovanili fascisti più organizzati, ha soddisfazioni sportive, immagini, premi.
Di questi ultimi anni, con qualche nome che sarà tra i protagonisti della ripresa, resta al calcio costense la memoria di un giocatore ricordato di grande talento e di sicuro avvenire: Angelo Giovannoni.  
E’ un attaccante ammirato, si dice dal gol facile. Abilissimo nel gioco aereo, intelligenet, trascinatore, uomo-squadra rispettato e sportman di cultura. La sua morte tragica probabilmente ne enfatizza il valore sportivo ed il rimpianto, ma non certo il sincero ricordo umano di un atleta nel quale il calcio costense si é sempre riconosciuto.
Del calcio dei primi del Dopoguerra ho discreta memoria. Con tutte le imprecisioni e le amnesie possibili su eventi vecchi di mezzo secolo ed oltre, é un calcio che in qualche modo mi appartiene; come appartiene ai miei coetanei.
Gli stessi con i quali, la domenica, finita l’ora di dottrina, volavo il ponte sull’Adigetto (el canaeto) con i parapetti di ghisa lavorata, e poi giù a perdifiato lungo la breve discesa che da via Scardona porta al campo della proprietà Boscolo, a Costiola.
Siamo quelli del secondo tempo, quando il tavolino che funge da cassa sta per essere ritirato e c’é il via libera per infiltrarsi fra le gambe di chi contorna un campo senza recinzione. Mai vista una partita intera, di questi tempi.
Ci accucciavamo lì, curiosi e appassionati, e forse proprio per quel punto di osservazione quasi da terra, i nostri idoli di casa ci sembrano giganti. Sono partite spesso amichevoli (si fa per dire: una volta, mi pare col Fratta, furono gli inglesi a bordo di jeep della Military Police dai caschi bianchi e rossi, a rimettere ordine usando manganelli che suscitavano recenti tristi ricordi), oppure di Propaganda, cioè calcio appena organizzato per non scendere nel caos.
I nostri “eroi”, che secondo noi non temono confronti con i grandi del calcio – Loik, Valentino Mazzola, Gabetto, Ballarin, Parola... – che conosciamo solo dai giornali o da qualche “film-luce” al cinema Ideal da Vaccaro -, sono Lino “Munana” e Toni “Comaro”, Orazio “Delbareo” e “Baci” Chiarioni, Gino Zerbinati, “el maestro Berto” e Ettore Bombonato. Più tardi li avremmo conosciuti meglio, con i loro nomi corretti: Giuriola, Rondina, Bernardinello...Con alcuni ci avrei, anni dopo, anche giocato.
“Più tardi” é quando il Costa – dopo aver risolto il problema del campo che nel frattempo é stato arato, trovando un nuovo terreno in via Umberto, dove é attualmente – si ricostruisce con il nome di Associazione Calcio, sceglie definitivamente l’azzurro come colore sociale e porta sulle maglie lo scudetto con l’emblema Municipale, la ruota alata sul ponte dell’Adigetto a simboleggiare l’unità di Costa e Costiola.
Il calcio Costa mi é in casa, mio padre ne é il segretario ed in pratica la segreteria é qui. Cartellini, foto, domande di tesseramento, comunicati, calendari, maglie nuove, numeri da attaccare.
Facile “innamorarsi”, stare con la società, seguire la squadra, conoscere i giocatori, diventarne difensore verbale durante le partite più accese, fino ad “offendere” un giocatore del Crespino, il centravanti Carion – terribile!- ed essere inseguito fuori del campo per una giusta lezione dalla quale mi salva Pio Cadore, guardia comunale ed ultras della tifoseria, di cui ricorre ancora la minacciosa frase diretta agli arbitri e mai concretizzata:”Se non te onde nissuni, te onde Pio...” crudo ruzantesco al posto del più soffice “onze”, ma dal significato chiaro.
Quando si comincia il campionato, a fine 1949, la camera da letto che divido con mio fratello Lino (che poi sarà allenatore) diventa lo spogliatoio dell’arbitro. Asciugamano di bucato, catino e brocca d’acqua, sapone nell’apposito ripiano. Per il campo, c’é quasi mezzo chilometro, nessun problema prima della partita. Al ritorno le scorte sono d’obbligo e l’unico a rifiutarle é l’arbitro Marini di Verona, un gigantone biondo, dal gesto sfrontato, che può fare da solo.
I giocatori, invece, sono più fortunati. Il Costa va sulla stradella del campo che cala da via Umberto, uno stanzone affidato alle cure di Carlo “Regolo” Paparella, fratello di Nini, che é un mago dei materiali di marche sempre incerte e di qualità orribile. Le scarpe diventano presto barche ed i palloni micidiali mezzi di percussione quando il terreno é bagnato.
La squadra ospite va al mulino dei fratelli Casotto, che é in via Umberto proprio davanti all’ingresso del campo. Le “docce” sono invece in comune: la fontanella d’acqua, con l’insegna del fascio, proprio sulla strada all’uscita del campo. Tra la gente che sfolla, commenta, ammira ed a volte minaccia. Fa sorridere l’obbligo, fin da allora, della recinzione del campo.
Queste sono le basi di partenza dell’Ac Costa. Che non comincia male, diventa subito ambiziosa. Vince un campionato di Seconda categoria l’anno dopo l’esordio e si ferma alle semifinali regionali contro il Chievo che schiera a mezz’ala un Campedelli, padre dell’attuale presidente della squadra veronese di serie A. Poi scala subito la Promozione nel 1951-52, l’anno interrotto dall’Alluvione, con il campo allagato più di un mese.
L’onda dei successi mette in subbuglio Costa. Il numero dei sostenitori cresce a dismisura. Ricordo borderò Siae con più di mille spettatori paganti a partita, ciò che fa dell’”Angelo Giovannoni” un campo torrido e difficile per tutti.
Non c’é moltissimo di Costa in queste squadre, la ricerca nel resto del Polesine e nelle province vicine (Padova soprattutto: ci sono buoni rapporti di conoscenza con l’ambiente biancoscudato), diventa spasmodica: arrivano giocatori da “fuori” a decine e non sempre la scelta é felice. Ricordo un viaggio ad Agna, nella Bassa padovana, nel pomeriggio di un giorno soffocante d’agosto, con mio padre e Gigetto Casotto, a cercare la casa, sperduta tra i campi, di un giocatore segnalato come “bravo”. Stava dormendo all’ombra del fienile, tra le barbabietole appena ammucchiate. Firmò il cartellino. Fisicamente era un iradiddio, come calciatore modestissimo.

Ma Costa vuole emergere, non bada (tutto é relativo) a spese e con quel pubblico che ha può spendere.
La storia di questi anni, compresi i due di Promozione (dal 1952 al 1954), resta quindi legata anche – a volte soprattutto – ai nomi di Mioni, Petranzan, Rota di Padova; Franceschetti di Fratta, Rocca di Monselice, Genova, Chiarion di Crespino, Mari di Lendinara, Gamberini di Vescovana, Zanirato, Boraso, Andreoli, Giomo di Rovigo. E sono una parte soltanto degli almeno cento “foresti” che indossano la maglia azzurra. Stessa cosa per gli allenatori, tutti da fuori.
I “nostri” giocatori, quelli di Costa, non sono molti, ma sono bravi. Pochi perché il Costa non ha mai avuto una scuola. Tutti “autodidatti”. Sono Antonio Rondina (“Toni Comaro” la sintesi popolare del sostantivo in luogo del più corretto genitivo “dea comare”, dato che la madre é ostetrica comunale), portiere di enormi mezzi, che vola come il cognome, che ama la maglia nera, che calcia (di sinistro) i rigori e che per scaramanzia, prima di ogni partita, convince sempre un compagno a sfregare il naso con lui. Poi Gino Zerbinati, terzino ruvido e potente; i fratelli Berto, Bruno “el mago” e Lino “Panza”. Tutto tecnica il primo, difensore (ma anche ala finta) elegante e furbo; terzino o centrocampista il secondo, la potenza impersonificata. E davanti Lino “Munana” Giuriola, un attaccante mobile, veloce, acrobatico, dalle ginocchia nodose.  
Per questi tempi, Costa non offre di più. C’é bisogno di novità, ma la società – soprattutto nei primi momenti – é troppo impegnata a concretizzare obbiettivi immediati. A soddisfare un tifo esigente, che non ha pazienza; sovente acido ed  a vote cattivo (soprattutto con gli arbitri), che vuol sempre vincere, soprattutto contro Villanova, Fratta e Arquà, le rivali di sempre.
La prima squadra giovanile nasce per imitazione. Siamo all’inizio del 1950 e si chiama Piccola Inter. Sono tra i fondatori, siamo in dodici ed il nome esce da un voto nemmeno tanto segreto, basato sulle preferenze del tifo. Allora lo scontro era Juventus-Inter. Più del Milan c’erano tifosi del Torino. Quelli dell’Inter sono di più, ed é Piccola Inter.
Divisa ovviamente nerazzurra, magliette e calzettoni acquistati da Paglianti a Rovigo per 1.100 lire. Calzoncini e scarpe ognuno si arrangia. Quando il Costa si accorge di noi ci mette a fianco Bruno Berto e Gino Zerbinati, ci sentiamo in cielo. Qui, in questa squadra, comincia a giocare Antonio Berto, “el magheto”, Berto III sui giornali, fratello di Bruno e Lino. Non fosse che per Toni “magheto”, é valsa la pena di fare la Piccola Inter.
Toni, é stato, a mio parere, il miglior prodotto del calcio a Costa, come testimonia anche una carriera notevole in giro per l’Italia che ha avuto il culmine nella Serie C soltanto perché “el magheto” non si é mai fatto sopraffare dalle necessità di carriera. Il calcio é stato prima di tutto un gioco.
Forse stravedo perché ci ho giocato a lungo insieme? Perché é un coetaneo?
Forse sì, ma sono contento di stravedere. Della Piccola Inter di cui ricordo un bravo “Batistin Tae”, (Battista Giuriola), un vivace Pasquale “veleno” Menabò, il potente Pino Ferrari, Pierin Rossi “dea Cecilia” e due portieri cresciuti imitando Rondina, Vittorio Baratella e Lino Bologna, sono stato il primo a arrivare in Promozione ( a meno di 17 anni), fra giocatori che mi incutevano timore fisico. “Con i tuoi 55 chili – mi assillava l’ing. Ennio Alberghini, ex giocatore del Rovigo, allenatore a Costa per qualche mese, devi solo non farti trovare mai dall’avversario che ti marca”.
Lo presi alla lettera, giocavo solo per smarcarmi. E quando in prima squadra arrivò Toni mi si aprirono spazi insperati. Soprattutto nei campionati di Prima categoria, quelli del primo, lento declino della squadra e del calcio a Costa. 
“El magheto” era un asso, giocava a destra dell’attacco e risaliva sul centro come un treno. Nei giorni migliori era irresistibile. Se non mi trovava smarcato per il passaggio-gol, mi arrivava un fortunato rimpallo dalle sue gambe, poderose di coscia, che facevano saltare i difensori. Fatto sta che avevo palloni e segnavo, segnavo molto. Toni segnava meno gol ma senza di lui non ci sarebbe stata storia per il nostro attacco.
Che grande, Toni! Alla fine di una stagione, con la squadra da ultime posizioni, ci troviamo ai primi posti tra i marcatori. Ci convocano per la selezione provinciale per il Trofeo Petron 1955, contro la selezione di Padova. Giochiamo all’Appiani, senza un allenamento di squadra. Tra i padovani “gente” come Bruno Nicolé e Benito Sarti, che vanno subito alla Juve, e Coppola. Mi marca Benito Sarti, Toni riesce a darmi un pallone e segno l’unica volta che tocco palla, perché poi Sarti s’infuria ed é buio pesto. Perdiamo 3-1, ma il “magheto” fa una partita incredibile e non ho mai capito perché quel giorno tutti abbiano avuto occhi solo per Nicolé e Sarti.
Finisce presto, nove anni in tutto, questa parte del calcio a Costa. Giocato quasi sempre a buon livello, sicuramente oltre le possibilità economiche “naturali”. Per naturali intendo che nel momento in cui é venuto a mancare l’esborso individuale, una tantum della passione, la società si é come seduta su se stessa.
E quell’entusiasmo, quella passione, erano troppo esasperati per poter sostenere più a lungo un calcio che cambiava, un tenore di vita che cresceva e modelli sociali che il fresco arrivo della Televisione stava plasmando in modo traumatizzante.
Costa non poteva reggere ed é giusto sia stato così. In fondo nella sua storia normale, nel quotidiano delle piccole cose, nel poco memorabile da tramandare, si staglia più nitida una passione mai sopita per questo gioco. Come dimostreranno gli ultimi trentacinque anni di attività ininterrotta e senza più crisi di rigetto.


Luciano Ravagnani – libro ‘A Costa il calcio’  
                                                                                                                  

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