AIA Rovigo, il Libro-Story e i suoi “75 anni di passione”, presentati da Cristiano Aggio. Dai 1931 al 2006, da Giulio Orlandi a "Quelli della serie A" e ai moderni ‘Signori Arbitri”


Questa ‘promotion’ è per la Storia dell’Aia di Rovigo e non poteva che essere di ‘competenza’ di Cristiano Aggio, che scrive:” Caro Sergio, “ti allego subito la presentazione che feci per "75 anni di passioni" per la tua rubrica on line. Eppoi…”.
E la risposta non è scritta nel vento, ma ….eccola:” Grazie Cristiano e onore al merito, perché al di là del fifty fifty, il sottoscritto per ‘quel libro’ è salito in corsa sul sidecar al tuo fianco solo per il fatto che un young come Te ha chiamato un old come me. Perciò a maggior ragione e perché eri stato Tu a partire per primo, era giusto mandare a “Memoria e Futuro” la tua ‘presentazione’ per il citato libro “75 anni di passione” ( vedi cover) pubblicato in tandem per conto della Sezione Arbitri di Rovigo”.
Eppoi…Questione di essere FRIENDS of Polesine “promotion in the world”, ognuno secondo le proprie caratteristiche comunque complementari, come lo sono stati gli arbitri dell’AIA Rovigo (perciò ne elenco i personaggi – story del libro) e come lo sei Tu (perciò la tua ‘little’ biografia by libro).

PRESENTAZIONE DEL LIBRO “75 ANNI DI PASSIONE” by CRISTIANO AGGIO

<< La passione dello sport / Lo sport è innanzitutto vita e come la vita, è costellata sia di successi che di momenti di difficoltà. Attraverso lo sport possiamo imparare ad affrontare meglio queste difficoltà perché esso ci insegna il significato del sacrificio, del duro allenamento, del rispetto delle regole e del prossimo. Lo sport è un’attività meravigliosamente democratica dove contano le capacità fisiche e di strategia, conta la forza d’animo, conta l’onestà. Onestà e sport: un rapporto purtroppo sempre più complesso e conflittuale in questi ultimi anni. Sono convinto che la realtà dell’associazionismo sportivo locale possa offrire una bella lezione di vita e etica comportamentale al cosiddetto mondo professionistico. Tagliare un traguardo di 75 anni è un gran compleanno; si festeggia la sezione Aia di Rovigo, gli arbitri: senza di loro non si può giocare. Più si va avanti e più il compito di fare il giocatore, l’allenatore, l’arbitro, il dirigente diventa un po’ più pesante per svariati motivi, ai quali si soprassiede solo per un vero motivo: la passione. E la passione a mio avviso la vive di più chi è un po’ più vecchio, chi può ricordare com’era un tempo o semplicemente un giovane nostalgico come me, che ricorda in continuazione come è stata la sua adolescenza con il calcio. Provo a descrivervela in queste pagine, sicuro che qualcuno leggendo queste righe farà sì con la testa e sicuro che queste cose, ora non le viviamo e non le vediamo più. 
Quelli della mia generazione sono quasi tutti dei calciofili. Sono cresciuti con questa vera e propria droga, passando la maggior parte del loro tempo libero su qualche improvvisato campo di gioco o a curare trastulli derivanti direttamente da esso. Le raccolte di figurine e il conseguente scambio, il Subbuteo, il Calcio Balilla, le partite allo stadio e/o davanti alla tv, ecc., davano vita a forme di aggregazione alle quali pochissimi non partecipavano.

Il campetto di periferia, dove la maggior parte di noi ha cominciato a dare i primi calci ad un pallone, si trovava quasi sempre accanto al cantiere di qualche palazzo in costruzione. Era uno spiazzo di terra, molto polveroso, e ogni tanto, qua e là, due o tre cespugli di erba incolta, come oasi nel deserto, lo guarnivano. Vi batteva impietosamente il sole, vi tirava vento e quando pioveva diventava una specie di palude. Le buche si ripetevano quasi con regolarità e nei giorni seguenti al diluvio si trasformavano in strafottenti pozzanghere. Tutto sommato, un campetto di periferia non si poteva considerare regolamentare se era sprovvisto del "pozzangherone" a centrocampo. Talvolta, inoltre, il campetto scompariva da un giorno all’altro. Ci si svegliava e le ruspe stavano scavando le fondamenta di un nuovo edificio. Tutti ci rimanevamo malissimo, ma, nonostante la presenza di minacciosi operai, alcuni, più che altro per protesta, durante la pausa dei lavori, scavalcavano le recinzioni e improvvisavano una partitella nello spazio rimasto a disposizione. La maggior parte passava alle gallerie del garage, al cortile condominiale, dove il portiere faceva valere la sua autorità, oppure alla strada, dove si giocava, a "porta unica", utilizzando la saracinesca di qualche negozio e suscitando le ire del proprietario, nonché quelle di coloro che non sopportavano il "rumore" del gol. Sul brecciolino, poi, ci sbucciavamo le ginocchia e le ferite sanguinanti e schiumose di acqua ossigenata ricordavano vagamente delle piccole pizze "margherita". A "porta unica" il portiere rinviava dando le spalle ai giocatori e ogni tanto rilanciava verso chi voleva, un po’ per simpatia, un po’ perché uno dei due giocatori gli aveva promesso, in cambio di un aiuto, un po’ di figurine. Erano i primi esempi di "corruzione calcistica". Il portiere faceva segnare il suo pupillo e si lasciava andare a interventi da "mostro" con l’altro sfidante.

Il campetto di periferia aveva delle dimensioni instabili, almeno per ciò che concerneva i confini definiti dalle linee del fallo laterale, e, comunque, subiva personalizzazioni direttamente proporzionali alla prepotenza dei più grandi. I pali delle porte erano costituiti da un paio di mattoni di tufo o, nei casi più sfortunati, da due grosse pietre, distanziate l’una dall’altra da circa sette metri, pardon, circa sette passi. Durante la partita, poi, il portiere, di nascosto e con grande maestria, provvedeva a diminuire tale larghezza spostando uno dei due pali, quasi sempre quello alla sua sinistra. La traversa, chiaramente, non c’era e i tiri angolati e un po’ alti che riuscivano a superare la linea venivano decretati gol alla maggioranza o discrezionalmente da colui dotato di maggior robustezza fisica. Altrimenti finiva in rissa o il proprietario del pallone, se era in disaccordo con la decisione, poneva fine al match con la solita frase:"Il pallone è il mio!". Un pallone di cuoio all’epoca era molto costoso e non tutti ne erano in possesso. Averne uno infondeva molto potere e molta sicurezza. E quando lo si portava dal benzinaio per gonfiarlo, con un apposito spinotto, lo si sfoggiava a testa alta, lo si ostentava. Il benzinaio, il più delle volte, per l’uso "carbonaro" della sua pompa, s’incazzava. I più erano in possesso di leggerissimi palloni di gomma che andavano "a vento". Il "Super Tele" e il "Super Santos", quest’ultimo un po’ più pesante, erano i modelli più frequenti. Quando un pallone del genere si bucava, cosa non certo difficile, qualcuno lo tagliava in due e una delle due calotte se la metteva spiritosamente in testa e simulava una precoce calvizie. Dopo i mondiali di calcio d’Argentina, fu messo in commercio una versione in gomma dura del noto "Tango". Con "sole" cinquemila lire si potevano dare dei calci seri.
Il campetto di periferia era sito in un punto abbastanza scomodo. Costeggiava sempre una trafficatissima strada e la partita veniva costantemente interrotta perché il pallone, con qualche calcio indecente, vi finiva, mettendo a duro repentaglio la vita dello sfortunato tiratore, incaricato, quasi a mo’ di punizione, del recupero. A nulla serviva gridare:"Pallaaaaaa!!!…" per attirare l’attenzione di qualche passante. Quando da bambini viene a determinarsi una situazione di pericolo risulta alquanto difficile ottenere un aiuto esterno. Era anche possibile, comunque, che il campetto fosse in cima a una scarpata e allora il recupero avveniva in mezzo a rovi, ortica, cespugli e rifiuti di ogni genere.

Quando si giocava per la strada, invece, questo vuole essere un piccolo inciso, il pallone andava sistematicamente a finire:
a) in un giardino con un cane da guardia ferocissimo;
b) nel giardino di un condomino misantropo e dall’infanzia travagliatissima, che lo requisiva e, talvolta, lo bucava davanti a tutti con estremo sadismo;
c) nel giardino di un edificio attiguo, disabitato, dalla recinzione altissima, con sbarre affilatissime, appuntitissime, dove l’addetto al recupero, nel tentativo di scavalcarla, si strappava qualche indumento rimediando una sonora lezione dalla madre;
d) sotto a una macchina, incastrandosi perfettamente al centro. In questo caso l’incaricato, con capacità superiori a quelle di uno speleologo, dopo aver provato ad allungarsi e a tirarlo via con un calcio, si infilava anch’egli sotto la vettura e riemergeva più sporco di un meccanico.
Alle porte del campetto di periferia, però, più avanti nel tempo, venivano apportate delle migliorie. Una mattina si alzava qualcuno, dopo una notte insonne, con lo sghiribizzo di piantare dei pali di legno. Alla miglioria contribuiva tutta la "comunità" e veniva a crearsi una situazione molto tribale, quasi da edificazione di piramide. C’era un’attribuzione di compiti e si lavorava in équipe. C’era colui che veniva adibito allo scavo, c’era quello che veniva incaricato di reperire gli utensili, quello incaricato di reperire i pali… Il compito più difficile!!! Si faceva il giro dei cantieri, dei falegnami, e si entrava in possesso di quattro o cinque travi, alquanto "scheggiose", di lunghezza e di diametro diversi. Venivano così messe su delle porte con pali asimmetrici che, con le rispettive traverse, assumevano forme introvabili su qualsiasi libro di geometria. Al primo tiro, di una certa consistenza, poi, la traversa veniva giù e anche al primo sgrullone di pioggia. I chiodi usati erano quasi sempre da "quadro". Si provava a sostituire la trave con un lungo spago ma non era la stessa cosa, anzi, dava adito a discussioni varie in sede di attribuzione della rete. Dopo una giornata quindi, rimanevano solamente due porte con due pali storti e disuguali, uno dalla forma cilindrica, l’altro più vicino a quella di un parallelepipedo, destinati, a loro volta, a crollare nei giorni successivi. E tutto tornava come prima. In alcuni campetti, comunque, le porte erano fatte con i tubi "Innocenti" e talvolta avevano anche le reti, ma ciò era rarissimo.

Il pomeriggio (e durante l’estate, praticamente sempre) raggiunto un gruppetto di una decina di persone, si cominciava a formare le squadre. I due più grandi, e anche i due più bravi, attraverso un tiratissimo pari e dispari, con tanto di "Alle bome del canon che fa Bim, bum…. bam" e con eventuali "scalette", si contendevano i componenti delle proprie compagini. Non si raggiungeva mai un numero pari di giocatori.
Per ovviare a questo inconveniente, il calciatore più scadente e solitamente più in tenera età veniva destinato a fare l’arbitro, all’unanimità contraddetto e deriso in ogni occasione, o veniva definito "scarto" e i due capitani se lo giocavano insieme alla palla, alla possibilità cioè di centrare per primi. Spesso lo scarto subiva anche l’umiliazione, d’intensità simile a quella delle "forche caudine", di essere ulteriormente scartato a favore della palla. Ma quasi sempre interveniva una giustizia divina, o di natura che fosse, e lo scarto segnava uno splendido gol della vittoria con un imparabile tiro al volo.
Sul campetto di periferia si giocava senza alcuna tattica, si correva tutti intorno alla palla, tutti in attacco, pochi tornavano in difesa. Era un calcio totale, tipo Olanda di Rinus Michels. Tutti volevano fare gol, come i brasiliani. Tutti correvano verso la porta. Le idee di Zeman, in confronto, sarebbero risultate quelle di un "catenacciaro". Veniva, comunque, applicata la zona, anche se involontaria. Ognuno marcava l’avversario che gli si faceva incontro, sempre se gli andava. Non veniva rispettata la regola del fuorigioco e allora c’era sempre uno stronzetto, dal fare "spocchioso", che, indisturbato, si posizionava davanti al portiere e segnava gol a grappoli. Poi si vantava. Era molto odioso. A nulla serviva sminuirlo con frasi del tipo di: "Stai sempre da solo…", "Così sono buoni tutti…", "Anche un handicappato avrebbe segnato…"
Si giocava senza tempo. Chi arrivava prima a dieci vinceva. Il match durava anche più di tre ore. Talvolta veniva sospeso in seguito all’intervento di qualche madre "spazientita".

Il rigore costituiva sempre un problema, sia nel decretarlo, sia nel batterlo. Non esistevano né le linee dell’area di rigore, né il dischetto. Si faceva ad occhio e anche a schiaffi. Per la distanza, poi, si contavano undici passi, qualcuno sosteneva che se ne dovessero contare nove. La squadra che doveva subire il penalty li faceva contare sempre a quello che aveva le gambe più lunghe e, nel tentativo di guadagnare terreno, egli rischiava spesso crampi e distorsioni. Poi, venivano applicate regole inesistenti. A tre calci d’angolo guadagnati si aveva diritto a tirare un rigore. Il portiere, inoltre, dopo avere accalappiato la palla, allo scopo di rimanere solo e indisturbato per il rinvio, le faceva fare tre rimbalzi e pronunciava la formuletta: "Uno, due, tre: fuori area!" e tutti si allontanavano come dinanzi a una minaccia seria. Il portiere, in caso di disparità numerica, poteva diventare "volante", previa dichiarazione "urlata", e magari andava anche a "realizzare".
Nessuno finiva sul taccuino degli ammoniti e neanche su quello degli espulsi. Si poteva anche fratturare liberamente tibia e perone di un avversario. Nessuno si lamentava, comunque… Si assisteva a partite molto maschie! "Il calcio non è un gioco da signorine!" affermava in continuazione qualcuno. La distanza della barriera sulle punizioni era un tira e molla continuo. Il che era del tutto inutile, la barriera si apriva, come un cancello automatizzato, a qualsiasi tiro. Tutti avevano una fifa folle di rimediare una pallonata, soprattutto in faccia o nelle parti basse.
Ognuno aveva un soprannome, coniato in seguito all’attaccamento a questo o a quell’altro campione del momento. Chiaramente, anche nella scelta dello pseudonimo andava rispettata una gerarchia, imposta dalla prepotenza e dalla maggiore prestanza fisica dei più grandi e/o dei più bravi. I più piccoli e i più scarsi finivano col farsi chiamare come qualche giocatore dello Zaire o dell’Haiti… Talvolta, qualcuno, improvvisandosi talent scout, tirava fuori qualche assurdo e anonimo asso di questo o quell'altro paese. Le divise "calcistiche" indossate creavano molto scompiglio. Quasi tutti indossavano una maglietta bianca e, comunque, di vestiario sportivo non se ne parlava proprio. Si giocava con i jeans, con pantaloni e camicia, scarpe da ginnastica della Diadema, la Nike forse neanche esisteva; le scarpe da calcio erano roba da pochi e costituivano quasi sempre il regalo di Natale o della prima comunione. D’inverno i maglioni di lana facevano sudare come maiali. Le magliette delle squadre più famose erano molto costose ed erano terribili anche nella loro versione originale.

Il linguaggio che si poteva udire in un campetto di periferia avrebbe fatto rabbrividire uno scaricatore di porto. Il termine "pippa" o "sega", all’indirizzo dell’atleta mediocre, poteva suonare all’orecchio umano come un tenero complimento. Il tripudio del trivio si raggiungeva a fine partita, quando i vincitori si lasciavano andare a cori e a slogan denigratori, con tanto di gesti basati sul palpeggio del proprio pube. In realtà, esistevano anche coretti educati, quasi filastrocche.
Una volta fischiato il termine dell’incontro, laddove non erano presenti fontanelle, si andava a bere a qualche bar in zona. Si chiedeva sempre, per mancanza assoluta di fondi, dell’acqua del rubinetto. Il barista s’incazzava e spesso diceva di avere il rubinetto rotto. Talvolta qualcuno portava una bottiglia da casa e veniva fatta girare. Raramente si cercava di organizzare incontri "seri", undici contro undici, con tanto di arbitro, guardalinee, ecc… Erano tentativi alquanto velleitari. Dai vari campetti di periferia credo che siano usciti molti campioncini e soprattutto persone vere>>.

SCHEDA/ELENCO DEI PERSONAGGI-STORY RACCONTATI NEL LIBRO

Eccoli in ordine di ‘foliazione’, come da sequenza pagine: Sisinio Bassan, Piero Begossi ed Emilio Zilio, Polonio Frezzato, Gianni Lazzarin, Flavio e Filippo Ongaro, Maurizio Giuriola, Lamberto e Loris Coltro, Giancarlo Bernardini, Fabrizio Rossi, Enzo Rossi, Antonio Puggina, Giancarlo Borsetto, Fabrizio Zanforlin, Matteo Barbin, Ivano Zago, Renzo Varolo, Luigi Giubin, Bruno Meneghini, Giuliano Govoni, Massimo Carli, Marco Buoso, Matteo Bergher, Cristiano Giolo, Samuel Vegro, Alessandro Raimondi, Stefano Salvadori, Roberto Astolfi, Pierluigi Bedendo, e dulcis in fundo Camilla Lionella ‘giacchetta rosa’. Per certi versi i più rappresentativi della sezione Aia prima del Polesine poi di Rovigo dopo la nascita della Sezione di Adria. E per i quali non facciamo nessuna ‘differenziazione’ in questa sede, rimandandone i relativi approfondimenti con gradualità, dentro questo sito www.polesinesport.it.
Fermo restando che il mosaico era e sarà un’incompiuta. Basti pensare a Bruno Bassani, Nabiuzzi e compagnia bella che comunque sono entrati ‘in foto’ nel libro –story.    

  

EVENTO STORY/ LA NUOVA SEDE “ARBITRI POLESANI” ( by Il Gazzettino, giugno 1966)

Alla cerimonia è intervenuto il presidente dell’Aia, conte Giulini/

<< La nuova sede dell’Associazione arbitri di calcio è stata ufficialmente inaugurata alla presenza di autorità sportive e politiche.
I locali di Piazza XX Settembre, attigui alla sede del Comitato provinciale della Figc, sono stati benedetti dal parroco di San Francesco monsignor Masiero, presenti il conte Giulini presidente dell’Associazione italiana arbitri, l’avv.Raule segretario del settore arbitrale, il dott. Tizian presidente del Comitato veneto della Figc, Rigato commissario regionale dell’Aia, l’assessore al turismo e allo spettacolo geometra Degli Esposti per il Comune di Rovigo, il rag. Tesini del Coni, consiglieri della Figc, arbitri e dirigenti. Hanno fatto gli onori di casa il rag. Bassan delegato provinciale degli arbitri e il maestro Zanirato commissario della Figc.
Nel corso della cerimonia hanno preso la parola il conte Giulini e il dottor Tizian mentre il benvenuto è stato rivolto agli intervenuti da Zanirato. Il rag. Sisinio Bassan ha tenuto un breve discorso. Al termine sono stati consegnati premi e benemerenze.>> 

BREVE BIOGRAFIA DI CRISTIANO AGGIO by LIBRO AIA ROVIGO

Cristiano Aggio (Rovigo, 4 luglio 1972). Giornalista pubblicista, scrive per il quotidiano Il Resto del Carlino, dal 1997 e ha collaborato con le testate la “Tribuna” di Treviso e il “Messaggero Veneto” .
Ha curato la pubblicazione per conto della camera di Commercio di Rovigo, dal titolo “1994-2004: Cinque anni di attività per lo sviluppo del Polesine”; è stato autore e supervisore dell’Agenda sportiva pubblicata a dicembre 2004 per conto del comitato provinciale del CONI e nel 2006, sempre per conto del Coni di Rovigo, “L’album dei futuri campioni”.
Nell’ottobre del 2002 ha pubblicato il libro “Una strada lunga trent’anni, il baseball a Rovigo dal 1972 ai giorni nostri”, un percorso sul baseball rodigino in occasione del suo trentennale.
Dal 1990 fa parte della Mass media del Veneto – rappresentativa veneta giornalisti composta da una trentina di giornalisti delle sette province del Veneto e capitanata dall’inviato RAI Ferruccio Gard – che ha la finalità di organizzare tornei di calcio a scopo benefico.
Nel dicembre 2000, consegue l’abilitazione di “Allenatore di Base, diploma B Uefa”, dopo aver partecipato ad un corso organizzato dal settore Tecnico di Coverciano, e allena una formazione del settore giovanile di una squadra polesana.

 
EXTRATIME by SS/ La cover, ovviamente, è per Cristiano Aggio al microfono, intervistato nel giorno della presentazione ai Musei dei Grandi Fiumi di Rovigo (era il 2006, ma dell’evento ne parleremo in una specifico Evento Story). Invece nella foto ‘cover libro’  ci sono Sisinio Bassan e Piero Begossi (guardalinee in Serie A negli anni ’50). Per quanto riguarda la fotogallery della ‘giornata del libro’ (di cui devo ringraziare 'come sempre' l'amico fotografo Giorgio Achilli) presentiamo in sequenza e a scalare la foto trio Giuriola, Rossi, Nabiuzzi in sede AIA Rovigo al momento della conferenza stampa ufficiale. Quindi il tavolo dei relatori al Museo dei Grandi Fiumi, prima con l’inaugurazione by Enzo Rossi (presidente AIA Rovigo, tra Giovannni Guardini presidente Figc e Tarcisio Serena presidente Aia Veneto) e poi col saluto by Lanese (presidente AIA nazionale). Quindi la sala pubblico, poi la foto premiazione arbitri anziani (Frezzato, Bassani, Begossi, Zilio) , degli arbitri con + di 20 anni di attività (Govoni, Meneghini e company),  e per concludere la premiazione by Tullio Lanese di tutti i presidenti dell’Aia Rovigo. Intendiamoci, è stata una giornata ‘particolare’ per tutto l’insieme dei festeggiamenti, perché qua do si dice LA STORIA SIAMO NOI , nello specifico riguarda la Storia dei Personaggi dell’Aia Rovigo.  Onore e gloria a LORO anche per aver pensato ci certificare la loro storia (dal 1931 al 2006) in un libro. E in quanto tale ecco la foto relativa, con da sx Cristiano Aggio, Enzo Rossi, Marchesini l’editore, Tullio Lanese  e il sottoscritto Sergio Sottovia.
Ma nello specifico ripropongo ‘dulcis in fundo’ , al fianco del CT Marcello Lippi, il ‘tecnico polesano’ Cristiano Aggio poliedrico interprete della ‘passione sportiva universale’, oltre tutto scientificamente abile a promuoverlo nelle modalità da ‘tempi moderni’.  

    


Cristiano Aggio & Sergio Sottovia
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