Antonio Ligabue (Parte Seconda by Serafino Prati) / Da figlio di emigranti in Svizzera a “povero/senza fissa dimora e carriolante” a Gualtieri sull’argine del Po. Nasce così il “pittore delle foreste e delle belve”


Nella “prima parte” Serafino Prati ci ha raccontato tutto l’habitat spirituale e umano che ha ‘formato’ la personalità ‘stramba e artistica’ di Antonio Laccabue. Da lì è ‘nato’ Antonio Ligabue “il pittore” anagraficamente nato a Zurigo nel 1899 da emigranti italiani, ma che a Gualtieri ha vissuto ‘disagiato per sempre’ nella bassa reggiana, fino al 1965 anno della sua ‘disgraziata’ morte  .
Adesso nella “seconda parte” sempre Serafino Prati ci racconta, nel suo ‘libretto umano’ intitolato tout court “Antonio Ligabue”, il disagio fisico e umano dell’uomo Toni, col quale ha lavorato a fianco da “scarriolante” nelle golene e sugli argini del Po a Gualtieri. Quante ‘ruzzolate’ per Toni e la sua carriola, anche quando da ‘carriolanti’ costruivano assieme la strada Colombaia che dalla zona golenale arriva alla sponda del Po.
Premesso quanto sopra, come PROLOGO di questa “Seconda Parte” (quella da pag 5 a pag 13 del libretto di Serafino Prati) voglio proporvi un breve e significativo stralcio del racconto, mentre per ‘anticiparvi’ le caratteristiche essenziali della “Terza puntata” dedicata alla Ligabue Story by Serafino Prati, voglio proporvi come “appendice” proprio l’incipit della terza parte della Ligabue Story, quella più specificatamente legata al pittore e alla sua vita terrena misera , prima che le belve feroci e le foreste dei suoi quadri lo innalzino al rango di grande artista.
PROLOGO ALLA SECONDA PARTE / ANTONIO LIGABUE “CARRIOLANTE POVERO TRA I POVERI” 
<< Antonio spesse volte veniva preso dai compagni di lavoro, in due, alzato di peso e poi lanciato in volo nel mezzo della cava dove l’acqua era più alta. Era lui che voleva godersi il bagno con tutti gli indumenti addosso.
Faceva il bagno e il bucato nello stesso tempo.
Usciva dall’acqua che diventava color della cenere e s’inoltrava nel fitto del bosco rotolandosi in mezzo al sorgo giavanese, come fanno i cani quando escono dal bagno.
Questi erano gli scherzi che egli preferiva, anzi provocava con voluttà.>>

SECONDA PARTE DELLA “ANTONIO LIGABUE STORY” ( by Serafino Prati)

<<Non si possono descrivere brani di storia di una persona, che ha lottato con accanimento, per diventare qualcuno, per non essere sommerso dalla massa del popolo che si agita e che cerca disperatamente un posto preminente della società.
Non i può se non si è sofferto come lui, per ottenere qualcosa di importante, mettendo a dura prova i sogni, i tormentati desideri,  posti davanti alla cruda realtà d’ogni giorno.
Alla persona di cui si parla, si legano gli aspetti fondamentali dei suoi lavori che esprimono le vicende creative dei suoi anni giovanili, sempre impegnati in fantasiosi voli di gloria, messi alla base di ogni speranza, di un domani migliore, di accorate malinconie maturate attraverso frequenti ed amare delusioni.
L’età fresca, se pure piva di esperienze, crea ugualmente lo slancio di acquisire il superamento dei momenti difficili, e guarda con fiducia a ciò che nell’età matura non è più possibile guardare. L’età giovanile affronta con esuberante entusiasmo le difficoltà e le conseguenze che l’ambiente nel quale vive procura; vedo la luce oltre il tramonto triste o allegro del giorno che passa, e non teme le ombre della morte, lo sconforto, la delusione.
Quando si è giovani il tempo non si misura a scadenze, perché l’età stessa. Fatta di slanci proiettati nella libertà d’azione, procura i sentimenti che premono per essere trasformati e concretizzati nella realtà.
Spaziamo oltre i confini e i limiti del luogo in cui si opera e sono pronti a raccogliere le immagini spirituali, consolidando man mano le illusioni che svaniscono,  e vivono solamente quando con amore si esprimono sulla carta, sulla tela ruvida, sul marmo freddo che si scalda al tocco miracoloso delle mani che creano con passione: come ha creato Ligabue.
Nessuno può dire, con profetizzante sicurezza, quello che sarà il giorno dopo; se la giornata sarà più bella o meno pesante di ieri, se i suoi desideri distesi alla luce del sole, avranno la certezza di venire esauditi come si anela.
Nessuno avrebbe mai giurato che un giorno senza data, magari nato all’alba di una notte nebbiosa, Antonio Ligabue, il pittore tanto discusso e guardato con sospetto, sarebbe diventato quello che ora è.
Nessuno si sarebbe azzardato ad immaginare che nell’intimo  di un giovane sconosciuto, appena capace di balbettare qualche parola in lingua italiana, vivesse l’impellente bisogno di creare ciò che vedeva nello spirito e nella materia, capace di accendere il fuoco di vasti orizzonti, il fuoco dell’arte ancora acerba; che in ogni suo intimo pensiero smaniasse il desiderio di creare disordinatamente in una furia creativa di una immagine impressa nella mente, meravigliose opere che sembravano allora insignificanti e che ora sono una luce sospesa nella attesa di riverberare le meschine malinconie di un mondo convulso, che non sa più guardare, godere e soffrire. Non occorre molto per raccogliere i sussurri dolenti degli anni in cui Ligabue era solo più solo di un’oasi in un deserto, per raccogliere i brevi sprazzi di gloria scaturiti da un quadro malamente pagato, la gloria e la fama di oggi illuminano un passato solitari e disperato.


Ma quali furono gli anni di speranza, di sogni, di impulsi e di fame , che hanno accompagnato il Ligabue quasi costantemente?
Ma quali furono gli anni dei quali si può  dire che l’artista veniva considerato tale, come bello viene considerato il giorno quando é illuminato da un chiaro sole in un cielo privo di nubi?
Ecco qui un punto che non si sa dove abbia il fulcro, come un’onda che si frange contro gli scogli e ch si spinge sulla roccia per arrivare sulla terra inaridita dal vento e dalla salsedine.
Ecco qui, silenziosamente, apparire un giovane timido che non sa parlare col suo prossimo, perché non riesce a farsi capire, se non con i gesti delle mani,  e comincia a sentire il bisogno di mangiare di più, anche se di lavorare nei lavori pesanti, non è capace.
Questo è Ligabue. Uno che viene inviato in Italia perché, si dice, i suoi parenti sono Italiani, anche se i parenti Italiani non sanno nemmeno che lui esista; la legge vuole così e così deve essere per tutti coloro che non hanno la possibilità di godere di un reddito e sono troppo poveri per restare in terra straniera.
Non è tanto che è finita la prima guerra mondiale. Il rumore degli eserciti in lotta si è appena spento. Le ferite su volo della gente denutrita si vanno cancellando.
Questa massa smania per recuperare un lembo di tutto quel tempo perso sotto l’incubo della morte in agguato.
La gioventù costretta a vivere per lunghi ed estenuanti anni nelle trincee piene di fango e di sangue raggrumato, vuole godere in un giorno, senza fine, tutto ciò che ha perduto in tanti anni di sofferenze.
In un paese di pochi artigiani e di moltissimi braccianti, emigranti alla ricerca di un duro lavoro per poter mantenere la numerosa famiglia, le piccole cose e le rare novità diventavano motivi validi di attrazione per quei pochi che passavano il loro tempo della giornata ad emettere sentenze e a criticare le azioni del prossimo.
Qui, dove l’agricoltura moltiplicava la sua esuberante produzione attraverso fitte diramazioni di canali irrigatori di bonifica, e le acque del Po ogni tanto straripando ingrassavano le melmose golene, in parte coperte da fitta boschiva vegetazione, in parte da rigogliosi pioppeti, io incominciai a sentire parlare di un certo Laccabue Antonio.
Nei primi anni della sua venuta  Gualtieri, non aveva fissa dimora.
Nessuno si preoccupava di sapere se c’era Laccabue, come e con chi viveva.
Suo padre a tutti gli effetti civili ed anagrafici era Laccabue Bonfiglio ma esso si trovava presso il mendico mio locale.
Il <<Sergentino>, così veniva chiamato il padre di adozione, non poteva, anche se lo avesse voluto, interessarsi di Antonio, e da quanto si poteva capire, non era troppo espansivo col proprio figliolo.
C’erano tanti forestieri a Gualtieri. Antonio faceva la spola un po’ da tutti. Emigranti rientrati dalla Alsazia e dalla Lorena appena strappata al dominio tedesco a suon di cannonate e di morti. Ritornavano, questi emigranti, nell’illusione di trovare nei lavori di bonifica, non ancora ultimati, la possibilità di una stabile occupazione di lavoro.
Erano gli anni, quelli, di un fugace benessere sociale. I contadini, per esempio, miglioravano le proprie condizioni economiche rapidamente.
C’era la <<fogarina>> a produrre questo momentaneo benessere. Una qualità d’uva che produce un vino aspro indicato per correggere altre qualità di vini pregiati e che è famosa e molto ricercata dai commercianti di altre provincie Italiane.
L’altra parte di popolazione, non avendo ancora la crisi di lavoro iniziato la sua costante arrampicata verso le alte montagne della disoccupazione, spendeva il ricavato della dura giornata integralmente, senza pensare eccessivamente alle incognite del domani. Il domani stava nelle promesse delle lotte politiche, nei principi di emancipazione verso una civiltà di perfezione che qui lasciava larghe speranze di essere raggiunta dalle nuove generazioni, in mezzo alle quali, stava anche il Ligabue.
Si lavorava allora al rialzo e ringrosso delle sommità dell’argine maestro del fiume Po.
Tutti i forestieri che capitavano al paese e non sapevano dove trovare lavoro finivano sempre con l’andare a ingrossare le file dei braccianti.

Il Ligabue incominciò proprio in questo lavoro, da quanto io ricordo, a conoscere lo squallido mestiere del carriolante, che consisteva nello spingere una carriola piena di terra su le rampe di legno incassate nella sponda dell’argine.
Anch’egli diventò un bracciante, come io lo ero già per quanto alto come un pulcino, imparando a camminare in fila dietro gli altri, respirando a fatica per arrivare sulla sommità arginale. Il sole implacabile mordeva le carni entrando negli occhi e spesse volte faceva perdere la visuale. Non era difficile ruzzolare giù dalla scarpata assieme alla carriola restando a testa in giù come impiccati nell’aria. Di questi ruzzoloni il Ligabue ne faceva parecchi in una giornata di lavoro.
<<Antonio, guarda di non perdere l’equilibrio!>>, gli dicevano, ma lui crollava la testa e confessava la sua disperazione per non essere capace di affrontare la fatica come gli altri.
<<Io non essere buono di stare sempre sulla rampa, io cattivo operaio>>.
Ma non era così. Toni non poteva dare di più perché dava già il massimo della sue energie in un’opera superiore alle sue forze fisiche.
Ripeteva sempre:<<Io non essere pratico camminare come un mulo tra due stanghe con carriola piena di terra, troppo difficile stare in piedi, troppo difficile respirare>> e ruzzolava giù dalla scarpata.
Eppure, se anche la fatica gli toglieva la voglia di esser allegro, non si adirava mai. Si rideva quando le ruzzolate formavano un groviglio di corpi che sembravano legati da un lungo filo invisibile.
Rideva Antonio, senza freno, a bocca aperta, gesticolando, indicando quelli che più di lui, si rovesciavano la carriola sulla testa.
Era gracile allora il Ligabue ed aveva un viso roseo e glabro. Non era certamente una bellezza ma comunque abbastanza interessante. Trattava gentilmente coloro che lo intrattenevano a chiacchierare, ed in modo particolare era felice quando poteva parlare in tedesco con altri operai che erano stati a lavorare in Germania. Parlava col mutilato Magnanini e con Macca; sul lavoro, quasi sempre, con Mazzini Archimede che conosceva la lingua tedesca come il dialetto locale. Antonio era buono e lo dimostrava dove poteva  e come poteva. Tale rimase sempre: agli scherzi che gli facevano i compagni di lavoro, a volte anche eccessivamente spinti, non rispondeva mai con giustificata reazione e sgarberie che potevano essere legittime.
Episodi più o meno significativi ce ne sono stai a iosa. L’ultima volta che lavorai insieme al Toni fu quando si costruì la strada Colombaia che dalla zona golenale arriva alla sponda del Po.
Si faceva il sottofondo stradale con terra persa da cave di prestito, sradicando salici e perforando cave che si andavano a riempire di acqua sorgiva. Antonio era nel suo elemento, ci faceva capire, col suo italiano strozzato di avere la convinzione di trovarsi in una foresta.
Per lui, lavorare sotto la chioma dei salici e degli alti pioppi, rappresentava un godimento che noi, non conoscendo i suoi pensieri artistici, non potevamo capire.
Faceva un caldo afoso; Antonio spesse volte veniva preso dai compagni di lavoro, in due, alzato di peso e poi lanciato in volo nel mezzo della cava dove l’acqua era più alta. Era lui che voleva godersi il bagno con tutti gli indumenti addosso.
Faceva il bagno e il bucato nello stesso tempo.
Usciva dall’acqua che diventava color della cenere e s’inoltrava nel fitto del bosco rotolandosi in mezzo al sorgo giavanese, come fanno i cani quando escono dal bagno.
Questi erano gli scherzi che egli preferiva, anzi provocava con voluttà.
Ormai i rossi lavori di bonificazione nelle valli acquitrinose e di difesa delle vie fluviali del Po stavano per esaurirsi rapidamente. Il benessere degli anni venti si era ridotto ad un lumicino fioco e tremolante.
Le lotte politiche hanno abbandonato il rispetto della personalità umana.
La democrazia, per la quale si è combattuta una grande guerra in difesa dei confini minacciati, viene relegata assieme alla libertà di pensiero, ai margini della vita sociale del paese. Ormai la dittatura fascista infierisce con accanimento e odio contro le organizzazioni operaie che chiedono l’attuazione del diritto di vivere in una società migliore. I lampi crepitanti degli incendi elle cooperative e delle Camere del Lavoro, si alzano i sinistri a rischiarare un avvenire che non presagisce nulla di buono. A completare il panorama di un periodo che si va maggiormente oscurando, la quota novanta del novecentoventinove dà il colpo di grazia alla classe contadina, che si era illusa di aver toccato il cielo con un dito, con la vendita d quella <<fogarina>>, che già stava soccombendo sotto gli attacchi della peronospera.
Molti di quelli che erano tornati al loro paese, convinti di trovarvi costante occupazione
Di lavoro, ritentavano l’espatrio clandestino, assai difficile da compiere, perché, alle frontiere, la caccia ai sovversivi si moltiplicava col moltiplicarsi di una serrata vigilanza di controllo delle solitarie vie dei monti.
Anche Antonio tentò il grande passo, sorretto dalla speranza e dalla visione di poter nuovamente ritornare su un lembo di quella terra natale dove i ricordi gli pungevano l’animo di nostalgia e dove avrebbe potuto camminare, senza tema, gridare, cantare, parlare con chi voleva, come era sempre possibile fare in questo paese geograficamente piccolo, lontano ai suoi sogni e dalle sue aspirazioni.
Ma egli, per quanto il desiderio lo spingesse a tentare il tutto per tutto, non poté mai volare oltre quei bianchi monti e posarsi nelle valli incastrate racchiuse nel proprio cuore. >>

APPENDICE “INTRODUZIONE ALLA TERZA E ULTIMA PARTE DI QUESTA LIGABUE STORY”/
<<Trapiantato definitivamente in questo ridente paese della bassa reggiana, fu costretto  vivere le ore della sua esistenza rotolando tra i sentieri della solitudine.
Siamo oltre l’anno trenta  e Ligabue  inizia una produzione pittorica piena di belve feroci e di foreste senza confini. Egli non è un uomo feroce; le foreste che vede e che tocca col piede scalzo, sono quelle dei boschi golenali del Po.>>


EXTRATIME by SS/ La cover è per la foto di Antonio Ligabue ‘pittore’ intento a dipingere ‘intensamente’ il suo quadro. Poi nella fotogallery onoriamo innanzitutto Serafino Prati, mostrandovi la copertina dei suoi libri , cioè “Cuore Padano” che certifica la sua sensibilità storica alle problematiche della sua gente. Come ha fatto da partigiano e da sindaco del paese di Gualtieri ( vedi altra nostra rubrica). E in chiusura mostriamo ancora Antonio Ligabue, conosciuto a Gualtieri e dintorni come ‘sfrenato motociclista’ e (vedi last photo) di feroci belve in battaglia.



Sergio Sottovia
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