Castelnovo Bariano & Novecento Story by Franco Rizzi in amarcord con Bergamaschi e Bernardoni, Brenzan, Sprocatti, Padusa e Nanin/ Su miseria tra ‘boje’ e ‘puaret’ in “Merica”, ponte sul PO e bonifiche agricole Spinea, Cybo, Maiol


Un viaggio panoramico come nei film “Novecento “ di Bortolucci, questo viaggio nel NOVECENTO della civiltà contadina a Castelnovo Bariano, come prototipo di tanti fatti storici che hanno caratterizzato tutta l’Italia anche oltre ciò che abbiamo segnalato nel titolo.
E allora visto l’ampio focus fatto da Franco Rizzi cantastorie dell’enclave altopolesano,  eccovi tout court il suo reportage su un habitat praticamente diventato un ‘quadrivio’ interregionale dove si sono incontrate diverse realtà socio-economiche, tuttora in evoluzione come una stazione dove i trevi arrivano e partono continuamente.
Da segnalare anche i vari ‘protagonisti’ di questo amarcord, anche perché i tanti focus fatti anche con Bergamaschi e Bernardoni, Brenzan, Sprocatti, Padusa e Nanin, rendono l’analisi ancor più ‘a tutto campo’, visto le diverse ‘sensibilità’ dei citati suoi …analisti, peraltro viventi nello stesso laboratorio-enclave altopolesano.

 

MAIN NEWS ( di Franco Rizzi, mail 01.08.2022)/ AMARCORD CASTELNOVO BARIANO NEL SECOLO SCORSO: AMARCORD NOVECENTESCO
Sono riuscito a delineare sinteticamente il quadro socio-economico castelnovese novecentesco grazie anche ai ricordi di un paio di amici pensionati: Angiolino BEERGAMASCHI (classe 1935, scomparso purtroppo ai primi del 2022) e Roberto BERNARDONI (1943).
Castelnovo Bariano, pianura Padana, terra di fiumi, canali, argini, alluvioni, ruralità diffusa, il Po e il Canalbianco a stringere a sud e a nord un vasto territorio fertilmente irriguo di 37.56 km.2., civiltà contadina ancestralmente imperante. Qui è compresa ovviamente l'unica importante frazione di San Pietro Polesine.
La civiltà contadina resiste ancora per qualche lustro dopo la fine della seconda guerra mondiale, tendendo definitivamente a scomparire o a subire profonde mutazioni, sommersa dall'incalzare prepotente della rivoluzione consumistica (Italia: il boom economico prima e dopo il 1960). Questo mondo era certo miseria, pellagra, denutrizione, disumane fatiche, analfabetismo di massa, esuberanza sia di nascite che di morti premature, desideri frustrati, oppressione dei padroni ("i siòri", per usare il dialetto castelnovese) ma anche e specialmente specchiata onestà, nobiltà dell'animo popolare, semplicità, solidarietà, saggezza, giustizia, cortesia, senso della famiglia, fede religiosa. La sacralità del quotidiano che la gente povera ("i puvrèt") esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire una casa, nel modo di comportarsi, di farsi i vestiti e di indossarli, come piantare un albero, contemplarne la fioritura, rispettare la natura e l'ambiente, il tutto sempre con grande umiltà.
Pauperismo dilagante: casa miserrime prive di acqua e fognature, senza pavimenti, convivenza familiare promiscua, isolamento geografico, gente concentrata in piccoli borghi come Castelnovo Bariano, oppure persa nella grande pianura. Abitazioni a volte con una o al massimo due stanze, in una delle quali si ricavava una specie di stalla per gli animali domestici. Con il miracolo economico il mondo contadino morì di lenta asfissia ma gli anziani di oggi ne portano  dentro i valori esistenziali più schietti per cui è bene non dimenticare quanto rimane di quel mondo durato secoli e da cui tutti proveniamo: il presente sarebbe un deserto terrificante senza le tracce del nostro passato.
Castelnovo Bariano, "Un ponte nella storia: mostra documentaria 1866-1916", 150 anni di storia castelnovese (a cura del gruppo Noi e il ponte, coordinato dal prof. PAOLO BRENZAN). Nuclei tematici castelnovesi; il ponte sul Po; l'emigrazione ieri e oggi; La rotta dell'Adige (1882); la pellagra; la boje; amministratori locali a cavallo dei due secoli; eventi novecenteschi... Piaga sociale l'emigrazione in "Merica"  di fine'800; la crisi agraria; l'arretratezza latifondistica; il pauperismo di massa; l'usura e l'analfabetismo; la malaria e la pellagra. Secondo il censimento del 1901 (5026 abitanti) ci fu una media annua di 140 persone verso le Americhe, il 27,3 per 1000 abitanti; 839 dal 1887 al 1891; 564 dal 1892 al 1896. Ecco le basi della rivolta sociale che gli storici chiamano la boje. Dette cifre comprendono ovviamente San Pietro Polesine.

Dal 1890 al 1915 meritorio l'impegno riformatore dell'amministrazione comunale: istruzione pubblica; cultura; servizi sociali; ponte in chiatte sul Po... Poi la grande guerra, il fascismo, il secondo conflitto mondiale, l'alluvione del 1951, il boom economico prima e dopo il 1960. La rinascita del secondo dopoguerra pose le basi socio-economiche a Castelnovo Bariano nel tempo repubblicano. Altre preziose notizie sul '900 sono state raccolte dalla meritoria associazione culturale PADUSIA. In particolare qui vanno citati due libri padusiani recenti. Il primo, Saluti dall'Alto Polesine. Cartoline d'epoca della prima metà del Novecento, Associazione Culturale Padusia 1920 (tanti spunti in foto commentate, pp.  133-169, ciò per Castelnovo Bariano e San Pietro Polesine). Il secondo, Io sono un uomo libero e onesto. Stefano Ravagnani 1921-2021 nel centenario dell'omicidio: documenti e atti giudiziari, Associazione Culturale Padusia 1921.

 

Gli abitanti castelnovesi e sampietresi censiti dal 1871 ad oggi ci danno la dimensione dei radicali cambiamenti pure qui a cavallo fra due millenni. Ecco i numeri: nel 1871 i residenti assommavano a 4935; 1881 5239; 1901 5026; 1911 4010; 1921 5822; 1931 5863; 1936 6052 (record assoluto); 1951 5908; 1961 4759; 1971 4055; 1981 3642; 1991 3205; 2001 3052; 2011 2931. Al 30 giugno 2017 si è scesi a 2722, ad inizio 2022 a 2652 abitanti, con  oltre il 10% di stranieri censiti.
Alcune considerazioni.  Fino al 1914 forte è stata l'emigrazione extraoceanica, nell'età fascista (1922-1945) fu bloccato ogni espatrio e il regime favorì assai le famiglie numerose, tassando gli scapoli. Dal 1946 in poi  da registrare  il baby boom e una forte emigrazione un po' dappertutto fuori dai confini nazionali; l'alluvione del 1951 obbligò molta gente a lasciare Castelnovo Bariano e San Pietro Polesine. Il miracolo economico dal 1955 al 1965 registrò un aumento delle nascite e contestualmente un esodo di tanti giovani verso il triangolo industriale (Milano, Torino...). Dal 1981 ad oggi calo demografico costante nell'invecchiamento e aumento dal 2000 dei residenti stranieri (nel 2022 il 62,4% di marocchini, il 12,5 di cinesi, il 9,5 di romeni).

Civiltà contadina si diceva. Tramite il ricco patrimonio fotografico dell'amico GERMANO SPROCATTI la realtà rurale castelnovese (ma è così dappertutto) viene dovutamente illustrata. Campagne ricche di verde, corsi d'acqua pieni di vita, il tempo circolare o stagione a ritmare il ciclo della vita.
Il fieno era essenziale per l'allevamento bovino ed equino, ecco  la raccolta dello "spagnàr", dopo il taglio,  comune dalla primavera all'autunno. Caratteristici i filari di salici (le "piantàde") a delimitare terreni e confini: potati ("scalvàr") nella stagione fredda, fornivano pali robusti per vari usi. Fondamentale l'irrigazione fornita dal Consorzio di Bonifica Padana (ora Adige Po) tanto che facciamo nostro qui un tradizionale proverbio rurale emiliano. "Fossi e cavedagne benedicon le campagne". Basta un po' di pazienza per cercare e trovare negli scritti degli agronomi la conferma della sua validità. Una validità profonda. Di lungo periodo. Un'eredità forse tanto antica quanto la stessa agricoltura aratoria. (C. PONI, Fossi e cavedagne benedicon le campagne, Il Mulino, Bologna 1995, p. 15). Sbancando le cavedàgne ("striscia di terra perpendicolare alla direzione de' solchi, che si lascia dai due capi del campo per voltarvi sopra i buoi nei lavori di aratro, d'erpice e simili". In dialetto castelnovese"cavdàgne") e scavando i fossi, si perseguiva un unico fine: quello di conservare e migliorare il sistema di scolo per difendere i campi dagli eccessi di umidità. Si consentiva, specie nel periodo autunno-primavera, la rapida eliminazione delle precipitazioni, oltre alla conservazione dell'umidità indispensabile alle necessità idriche dei campi padani. Terreni, fossati e salici, un panorama diffuso.

La pastorizia non è  mai stata peculiarmente castelnovese o sampietrese tanto che oggi sull'argine del Po arrivano greggi in transumanza invernale, seguendo i fiumi, addirittura dal Trentino. Comunque si ricorda la famiglia Degli Antoni ("al pastòr") che allevava pecore e che abitava in fondo a via Gramignazzi alla confluenza con la Giacciana; i discendenti risiedono nella stessa zona.
Grano, granoturco e pioppeti caratterizzavano e caratterizzano la ruralità nostrana. Faticosi lavori in campagna a livello manuale davano come prodotti finali le varie farine per panificare, per la polenta e per l'alimentazione animale. Un rito ancestrale che impiegava stagionalmente intere famiglie nel tempo circolare, ritmando annualmente la vita e l'operosità dei contadini, pur divisi nettamente dalle condizioni economiche: ricchi e poveri, proprietari e braccianti,"siòri e puvrèt". I poveri lavoravano saltuariamente nei campi, durante i mesi più favorevoli a livello climatico, in quelli freddi non c'era niente da fare. Donne e uomini in difficili condizioni di reddito (la stragrande maggioranza) dovevano chiedere ai padroni qualche giornata di lavoro ma tutto era  sommamente precario, non c'era sicurezza di un salario regolare. Infatti si diceva: andiamo a chiedere un lavoro incerto, l'"inzèrt": il termine dialettale rende bene la grande difficoltà della vita lavorativa novecentesca. Si doveva chiedere il permesso addirittura per andare a raccogliere sui campi già spogli dopo la mietitura i resti di grano o di mais (spigàr) e anche quel poco residuo raccolto con fatica serviva a dare un po' di sollievo a pranzo o a cena.

 

Stesso atteggiamento collettivo per i pioppeti tagliati. In questi boschi restavano ramaglie inutilizzate che, lavorate con il "falzòn", popolare strumento di taglio per legno, servivano nelle stufe e nei camini, pur essendo scarti. Nella vasta golena Cybo sino al 1951 esistevano molte case sparse, un microcosmo scomparso dopo l'alluvione, quando il Po ruppe ad Occhiobello e non in località Chiavecchino (Bergantino). L'argine maestro divideva e univa tanta gente in un tempo di famiglie numerose, di tanti ragazzi vogliosi di lavorare e di affermarsi pure emigrando, quando il nonno in casa era il padrone indiscusso.

Germano Sprocatti ha immortalato la Cybo: sullo sfondo l'argine secondario Maiol, la casa diroccata di Veronesi, in primo piano un uomo, in mezzo a un mare di rami di pioppo abbandonati dopo il taglio, la scena del recupero di piccoli pali da bruciare o utilizzare a casa. In un pioppeto tagliato si poteva recuperare pure il ceppaio (la "zèpa"), che il padrone non voleva. Era grande la fatica: grossa buca, badile, vanga, piccone, la gigantesca radice veniva estratta dal suolo e recuperata; avrebbe poi dato legno abbondante per il riscaldamento invernale, pur essendo uno scarto.
Canapa, semina, cantina, forno, granaglie, piccoli attrezzi agricoli, vino, casaro, scariolanti, sfogliatura del mais, bucato, mondine, scuola, maniscalco, calzolaio, aratro di ferro, attrezzi da cortile, falegname, arrotino, illuminazione, finimenti, stadère, ferri da stiro, cucina, camera da letto, trattori d'epoca. Moncelli (covoni di grano tagliati a mano) nei campi con carretti e buoi, moncelli sull'aia... Trebbiatura, tante persone al lavoro, il grano grezzo veniva divorato dalla trebbiatrice, da dietro il chicco in gran quantità a riempire i sacchi, la paglia ("pula") si produceva separatamente, poi stivata a formare il pagliaio.

Disprezzato, vilipeso, il contadino rappresentò per secoli l'ultimo gradino della scala sociale. Miseria e disperazione, lavoro duro e faticoso, specie d'estate, quando i raccolti e la preparazione dei terreni per le successive semine impegnavano uomini e animali dall'alba al tramonto. D'inverno i lavori manutentivi. Si riparavano carri, si pulivano fossi e siepi vive, si potavano alberi da frutto e viti, con il maltempo si fabbricavano cesti in vinco o in canna, si accudivano gli animali posti nelle stalle. Con la primavera cominciavano le prime fienagioni, si innalzavano i pagliai da fieno, si seminavano piante da frutto. Momento strategico la mietitura e la battitura del grano, quando, in base alla quantità del seme raccolto, si aveva la speranza di un anno senza privazioni, se abbondante, oppure di stenti e di fame, se scarso.
Nei primi anni del '900 arrivò la meccanizzazione in campagna e la fatica calò per fortuna. Ne abbiamo testimonianza diretta proprio a Castelnovo Bariano. Nel corso della 146a fiera di San Rocco (fine agosto 2015) presso il parco delle scuole medie GIAMPAOLO GHISELLINI, detto Nanìn, ha messo in mostra le sue macchine agricole d'epoca, dovutamente recuperate e funzionanti. "Nel 2010 - dichiarò allora alla stampa locale - ho acquistato dal museo agricolo di San Giovanni in Persiceto un gigantesco locomotore a vapore inglese Ransomel risalente al 1904 e impiegato in agricoltura (forza 12 cavalli), perfettamente funzionante. Un altro acquisto a Revere, una sfogliatrice di mais marca Casali (Suzzara) del 1905, riportandola all'originaria funzionalità. Le due macchine hanno dato una perfetta dimostrazione durante la sagra, regolate da volontari in costumi d'epoca, per cui le pannocchie venivano sfogliate e ridotte a chicchi". Tanta gente ognietà ha assistito alla lavorazione amarcord, ciò con "interesse e partecipazione", ha annotato il giornalista.

 

Agricoltura e povertà, acqua dannosa e bonifica, un esempio fra i tanti il "Quartiere Spinea" risalente alla secentesca Bonificazione Bentivoglio con i suoi 77,11 ettari, una lunga e sottile striscia di terra rurale in gran parte sabbiosa, addossata all'argine maestro del Po tra la storica località Bariano e Golena Cybo (ex fornace Meneghini). Prende il nome dall'omonima via Spinea arteria rialzata arginalmente, nascendo dalla rampa di Bariano (argine maestro del Po) e finendo con quella ex Meneghini. Nel 1867 divenne strada provinciale sulla direttrice arginale Mantova-Ostiglia-Castelmassa-Ferrara. La Spinea fu declassata a comunale quando fu costruita la statale 482 (adesso regionale) Mantova-Ostiglia-Castelmassa-Badia Polesine, dopo l'alluvione del 1951 (arteria terminata nel 1957).
Lo Spinea, un minuscolo consorzio irriguo, un luogo che ha sempre lottato con le acque risorgive del Po (la "surtìa"), non avendo mai avuto canali di scolo autonomi per cui occorreva il permesso dei consorzi limitrofi, senza esito. La microstoria idraulica dello Spinea, considerata da tutti terra "acquitrinosa", "alluvionata" perfino dagli abitanti della piazza castelnovese (i "piazaròi"), addirittura dagli stessi amministratori locali. Per i proprietari del Bacino Spinea, autonomo, anacronisticamente autonomo sin dal '600 al tempo della Bonificazione Bentivoglio (un patto comunitario per gli endemici problemi idraulici in una minuscola zona solo povera, senza soldi e con tante spese, la ragione per cui nessun ente  irriguo superiore ha mai voluto venire in aiuto), fu sempre vitale essere assorbirti da un consorzio più grande.
Si ebbero sempre due tombini di scolo sotto via Spinea: uno a Bariano, il Natali (attraverso il Dugale Menani s'immetteva nell'attuale Collettore Padano); l'altro ad est del municipio, il Martini o Spinea (raggiungeva lo stesso Collettore Padano tramite lo Scolo Rosta). Quando erano chiusi (quasi sempre), si andava ammollo, l'apertura significava tanto a livello socio-economico: un'ottantina i proprietari con una superficie censuaria complessiva di 776.90 pertiche. Il deflusso, in tempi in cui le piene del Po erano un fatto normale in primavera e in autunno, caricava di acqua altre zone, ecco il motivo per cui il Natali e il Martini venivano chiusi. Allora lo Spinea andava sott'acqua per la "surtìa" e nessuno interveniva. Ad ogni piena del Po, o di prolungato tempo piovoso, lo Spinea andava sotto e l'acqua, senza sfogo, vi ristagnava, scomparendo poi lentamente per assorbimento o naturale evaporazione. Gravi le conseguenze: campi improduttivi; animali senza foraggi nutrienti; abitanti privi di acqua potabile (circa 600), attaccati da malattie infettive causate dagli acquitrini che si formavano attorno alle abitazioni, inquinando i pozzi ed esalando pestiferi miasmi. Questo per alcuni secoli fino ai primi decenni del '900.
Gli anni passarono e lo Spinea a livello idraulico fu sempre un problema per gli abitanti, senza nessun interessamento di chi di dovere. Nel 1963 il presidente consortile Giorgio Davì fece rilevare che per migliorare la situazione si doveva portare la tassa a 4.000 lire per ettaro, causa i maggiori costi di manutenzione dello scolo idrico. "Ciò sarebbe molto gravoso per terreni di scarsa produttività perché alluvionali. Pertanto, non presentandosi altra soluzione, propongo di addivenire ad un accordo radicale con il consorzio di Bonifica Padana, chiedendone l'aggregazione o la fusione". Tale proposta venne approvata in senso unanime dal direttivo spìneo, previa richiesta alla Padana delle seguenti garanzie: "che sia migliorato il deflusso delle acque; che si assuma la sistemazione del segretario del consorzio; che la tassazione non sia più gravosa dei terreni confinanti col Bacino Spinea". Non se ne fece niente! (F. RIZZI, Lo Spinea, microstoria di un consorzio di bonifica, in La bonifica tra Canalbianco e Po. Vicende del comprensorio padano polesano, Minelliana, Rovigo 2002, p. 305).
Nel novembre 1966 l'Italia fu alluvionata in tanti territori, il Po allagò lo Spinea nel solito senso risorgivo, un fenomeno mai visto: case allagate, terreni gonfi d'acqua, disperazione collettiva, rabbia diffusa per la solita insensibilità istituzionale ai vari livelli. Dopo parecchi giorni l'acqua non defluiva e qualcuno nottetempo aprì del tutto i due tombini di scolo parzialmente bloccati come sempre dalla Padana nell'emergenza. Il commissario governativo del Consorzio Giovanni Gauttieri presentò formale denuncia ai carabinieri di Castelmassa per le "continue manomissioni subite dalle opere di parzializzazione della luce del tombino Natali e si riserva di agire giudizialmente nei confronti dei responsabili". Nel 1976 il Po da agosto a novembre fu in piena ben cinque volte e l'acqua risorgiva mise una volta di più in atavica difficoltà le famiglie dello Spinea. Ciò accelerò la soluzione del problema in quanto la Regione Veneto stanziò cospicui fondi straordinari per i consorzi di bonifica dopo l'alluvione del 1976. Lo Spinea passò ufficialmente alla Padana il 22 febbraio 1980 a seguito del provvedimento della giunta regionale n° 6322 del 6 dicembre 1979. Intanto a Venezia era passato il "progetto dei lavori di collegamento del Bacino idraulico Spinea con la rete consortile in Comune di Castelnovo Bariano per l'importo di 210 milioni di lire". I lavori iniziarono nel 1983 e finirono in giugno. Fu creata una nuova rete di scolo di km 4,584, quella preesistente era solo di 1,020. Da allora i 77,68 ettari dell'ex Spinea, ormai Padana, non hanno avuto più problemi in quanto la nuova rete irrigua era stata concepita per eventi risorgivi fuori dalla norma. Nel tempo non è mai mancata la manutenzione idraulica ordinaria e straordinaria e via Spinea dal 1983 è una zona alla periferia castelnovese immersa nel verde, dotata di tutti i servizi, tranquilla, abitazioni sparse ben tenute tanto che molti da fuori hanno  preso residenza qui. Dichiarata riserva naturale nel 2000, dal 2019 fa parte della zona fluviale del Po dichiarata patrimonio universale dall'Unesco.
Collegati al mondo rurale gli antichi mestieri manuali, quelli degli artigiani che, insieme ai piccoli coltivatori diretti, ai mezzadri e ai piccoli affittuari connotarono nel '900 la realtà socio-economica, pure castelnovese. Ricordiamone qualcuno: bottaio; segantino; falegname; scopaio; carrettiere; maniscalco; sellaio; arrotino; meccanico di biciclette; fabbro agricolo; intagliatore; ciabattino; costruttore e riparatore di barche; fabbricante di reti da pesca; materassaio; sarto; impagliatore di sedie; cestaio.

 

EXTRATIME by SS/ In cover il tandem amarcord-pensionati Roberto Bernardoni e Angiolino Bergamaschi.
Quindi in apertura di fotogallery due immagini del fotografo naturalista Germano Sprocatti, emblematiche dei volti e dei personaggi della civiltà contadina ( il contadino che taglia gli alberi e la donna ‘con fazzoletto e con un solo dente’) , prototipi della vita del Novecento in tutta la Padana  come raccontata nel film-saga  ‘Novecento’ di Bernardo Bortolucci o più recentemente da Pupi Avati, ma riconducibile anche alla ‘civiltà contadina raccontata da Bacchelli nel Mulino sul PO o da Ermanno Olmi nei suoi film, a partire da “Albero degli zoccoli” recitato da Personaggi veri e in dialetto.
Tutto relativo a Storie  vita di cui agli amarcord dei pensionati che vi proponiamo ancora nel finale della fotogallery e in sequenza con Angiolino Bergamaschi e poi Roberto ‘Boninsegna’ Bernardoni che ho avuto la fortuna di incontrare e parlare anche di…calcio e gioco di squadra in Altopolesine, vista la sua somiglianza col “Bonimba” gemello di “Rombo di tuono” Gigi Riva.
Da notare che hanno tra le nani una serie di foto ‘griffate’ Germano Sprocatti e riferite all’enclave altopolesano e alla sua civiltà contadina da NOVECENTO e oltre, con tutti i pro e contro.

Franco Rizzi & Sergio Sottovia
www.polesinesport.it