Ligabue Antonio Story (Parte Terza by Serafino Prati)/ Quando a Gualtieri il ‘pittore naif povero e pazzo’ era benvoluto dallo scultore Mazzacurati. Quando poi all’Istituto psichiatrico di Reggio Emilia…


Nella Prima parte era Antonio Laccabue arrivato dalla Svizzera, nella Seconda Parte era lo “scariolante” a Gualtieri nella golene del Po, adesso nella Terza parte la Storia di Antonio Ligabue by Serafino Prati racconta il pittore naif che a Gualtieri era ormai ‘pazzo e povero’ anche se era ben voluto dallo scultore Mazzacurati.
Una vita agra che lo portò al ricovero agli Istituti Riuniti di Reggio Emilia. Per una vita di sofferenze come la morte.
Per  una storia dal tratto umanissimo by Serafino Prati (di cui abbiamo già raccontato “libri e vita” su questo sito) , che vi proponiamo subito sottolineando peraltro che il Prati ( è stato anche sindaco di Gualtieri) l’ha conosciuto bene e l’ha aiutato ‘per quel che poteva essere aiutato un povero e pazzo artista come Ligabue’.

ANTONIO LIGABUE STORY – TERZA PARTE (da pag 14 a 26 del ‘libretto by Serafino Prati) / QUANDO IL PITTORE  E’ UN ARTISTA A GUALTIERI E POI UN “POVERO PAZZO” AGLI ISTITUTI PSICHIATRICI DI REGGIO EMILIA
<<Trapiantato definitivamente in questo ridente paese della bassa reggiana, fu costretto  vivere le ore della sua esistenza rotolando tra i sentieri della solitudine.
Siamo oltre l’anno trenta  e Ligabue  inizia una produzione pittorica piena di belve feroci e di foreste senza confini. Egli non è un uomo feroce; le foreste che vede e che tocca col piede scalzo, sono quelle dei boschi golenali del Po. Iniziano anche però sul suo viso ora coperto da ispida barba i segni di una costante denutrizione. Si allontana da quel momento, a poco a poco, come si sentisse il richiamo di una voce che soltanto lui poteva capire ed ascoltare.

Lo si vede raramente frequentare i pochi amici dei lontani giorni della sua venuta a Gualtieri. Lo si vede più spesso girare in aperta campagna, fermo davanti ad un cartone bianco, posato contro un salice, a dipingere con furia tutto ciò che gli passa per la mente.
Intreccia dialoghi, volgendo lo sguardo ispirato verso il cielo, con le sue creature che nascono a colpi di pennello come toccate da una bacchetta magica, e si ferma soltanto quando ritiene di aver impresso nel quadro l’espressione irruente e vivace della sua immaginazione diventata realtà palpitante.
Ormai ai suoi scatti di ribellione ad una società insensibile alla sua idea di forgiare,  colle proprie mani, una verità non da molti compresa, nessuno più bada. La notte lo coglie e lo nasconde al prossimo che gli passa vicino; la furia gli scuote la mente perché lo si lascia solo nel groviglio della sua miseria, non procurata dalla sua volontà, ma da un insieme di cose originate dall’ambiente; trascurato e vilipeso da una società sempre avara verso chi più di ogni altro tenta di dare un volto migliore alla vita.
Si è già detto di lui tutto ciò che apparentemente fa parte del suo randagio andare, del suo inspiegabile modo di concepire le comodità della vita.
Si sono scritti moltissimi articoli più o meno veritieri sulle capacità e la genialità della sua travolgente produzione pittorica, ma non si è mai pensato alla sua sete di amore, al suo profondo desiderio di affetto, insomma a quella smagliante materia che alimenta lo spirito, con l’inutile e angoscioso desiderio di una famiglia.

Quando io lo incontravo nelle fredde giornate invernali verso il bosco, dove lo attendeva una fredda capanna priva di finestre e lo accompagnava il silenzio della notte, a tratti interrotto dal lugubre grido del gufo, pensavo che vivendo in quel modo, non era difficile smarrire il senso della ragione. Avvenne per naturale conseguenza di stenti, l’esaurimento che lo portò direttamente all’Istituto Psichiatrico di Reggio Emilia.
Dimesso dopo parecchi mesi di degenza, si trovò nuovamente a contatto di una realtà che non aveva modificato nulla del suo tenore di vita. Solo quando Marino Mazzacurati, il grande scultore, lo prese sotto la sua benevola protezione, conobbe la tranquillità che gli diede la possibilità di perfezionare la sua arte, di migliorare le condizioni fisiologiche del suo gracile corpo, e di sperare di entrare nel consorzio umano, per occuparvi un posto di soddisfazione e di prestigio personale.
Ma quella fu una effimera illusione, un abbagliante raggio di luce, fra le tante tenebre della sua travagliata esistenza. I suoi lavori, gettati sul mercato per pochi soldi, al primo che capitava, gli davanti modo di acquistare animali domestici, cani di razza ed altre piccole cose, fra le quali egli si sentiva vivo e libero padrone di sé e del mondo.

L’ironico comportamento di chi guardava, come si guarda una rarità priva di valore, le se molteplici stramberie, ormai non lo turbava più. Le sue manie del naso aquilino come indice di superiore intelletto artistico, gli procuravano il sadico piacere di martoriare le proprie carni, perché così facendo, pensava di preservare integro il senso del suo gusto creativo sempre impetuoso anche nei momenti più cruciali. Ma il guadagno di quei quadri venduti non gli bastava a sfamare quel suo coro da una lunga e antica fame, a migliorare il suo randagio errare da una casa all’altra, da un fienile ad un misero stambugio. Intervenne allora la solidarietà della pubblica assistenza Comunale che lo accolse nella infermeria dell’Ospedale Carri. Acquisì allora il conforto di alimenti caldi e di un dormitorio posto in un angolo della torre campanaria della Chiesa di S. Andrea.
Da quel momento poté evitare i rigori del freddo invernale e dello scroscio abbondante delle piogge primaverili che gli inzuppavano gli abiti e brandelli che malamente lo coprivano, e gli lavavano la faccia piena di rughe e di ispidi peli grigi.

Non era più costretto a dormire sotto le stelle, tra il biancore allucinante della neve gelata, o nell’infuriare di un temporale che mozzava il respiro.
Dormiva tra le parti umide rigate di muffa nella strana posizione di un cane raggomitolato e solamente lui si poteva accontentare di vivere nel buio di quelle pareti che i secoli avevano scosso al sordo suono delle campane, dell’antica confraternita dei frati Francescani. Eravamo nel periodo in cui le aquile romane volavano con folle sbattere d’ali, sulle ambe dei monti africani andando a snidare le truppe del Negus con spargimento di iprite, per conquistare un posto al sole per il popolo Italiano.
L’onda di quella inutile corsa alla conquista di una terra che non avrebbe mai portato giovamento alla economia della nazione, ma solamente seminato gracili illusioni ed aumento di malcontento e di miseria, non toccò mai l’indifferenza di Ligabue.
La sua meta aveva un’unica direzione; più egli camminava, più incespicava contro la incomprensione che lo circondava; più allungava il passo e più la meta si allontanava.

E così passano gli anni e le speranze si perdono nei tormenti dei suoi scatti d’ira che mettono paura ai bambini ed anche a sé stesso.
Qua e là i commenti ai suoi quadri si fanno più fitti e contrastanti.
Molti comprano i suoi quadri perché hanno la speranza che un giorno avranno un valore.
Ligabue pur vivendo in un ambiente smile a una prigione non si perse mai d’animo. Non smarrì la volontà di continuare per la sua strada  dipingere tutto ciò che la mente gli metteva tra le mani. Si sentiva chiuso nell’intimo elemento di un mondo animale che per quanto feroce fosse, non era mai stato più feroce del mondo umano che si stava sbranando nella seconda guerra mondiale. Non avvertiva l’avanzarsi di quel ciclone che stava per scomporre le norme sociali del vivere civile.

Potevano crollare i palazzi sotto infuriare dei bombardamenti a tappeto; si potevano frantumare le viscere della terra colpite dal fuoco maledetto e spaccare le alte montagne rotolando nelle valli; tutto ciò non lo conturbava e lo lasciava indifferente perché a lui nessuno poteva togliere più di quanto avesse cercato di dare del suo impegno e della sua arte. Bastava avere un pezzo di terra da plasmare per creare l’urlante leone in lotta con la tigre; una zolla di terra nuda per porvi il piede ed il quadro sul quale incidere i suoi castelli normanni o le savane squassate dal vento, perché si sentisse veramente l’animo lieto; ed il groviglio dei suoi pensieri si distendeva in urla selvagge che gli davano tanta felicità.
Un piatto di minestra calda, che consumava alla mensa del mendico mio, in fretta, un filo di sole per scaldare il magro corpo già increspato dagli stenti, un’ombra estiva sotto la quale dormire e sognare il galoppo dei suoi amici selvaggi che cozzavano contro i rami secchi delle foreste immense; questo era tutto ciò che lo interessava e lo spingeva a creare.
Sono molti gli abitanti di Gualtieri che ricordano le su abitudini di andare a passare intere giornate al macello comunale.
Si poneva in un angolo della cella di macellazione e come attratto da una forza magnetica seguiva il rito preparatorio del sacrificio dell’animale da ammazzare; come ipnotizzato.

Quando vedeva il toro crollare sul pavimento sporco di sangue e colpito a morte dalla brutale mazzata del macellaio, n soffriva enormemente.
Gli spasimi dell’agonia del toro morente gli procuravano brividi di orrore, come se la morte dell’animale indifeso fosse anche colpa sua, perché chi uccideva era un suo simile.
Quando qualcosa gli turbava l’animo e lo esasperava, metteva assieme, in brevissimo tempo, dando sfogo al moltiplicarsi delle sue meravigliose e istintive sensazioni di creatore, più di quanto potesse mettere assieme in mesi di lavoro.
Si estasiava davanti alle sue pitture vivaci e toccanti, ai suoi lavori così faticosamente elaborati, mentre la fame gli ruggiva in petto; e se qualcuno un vena di fargli uno scherzo, si burlava dei suoi lavori e criticava il suo dipinto, allora non era facile convincere <<Toni>>  a restare buono. In un attimo si accendeva come un fiammifero e distruggeva ore e ore di paziente fatica. Non c’era modo di fargli capire che il giudizio negativo era semplicemente uno scherzo amichevole.
Spessissime volte mi capitò ‘assistere a sfoghi d’ira talmente violenti che, a dire il vero, non facevano affatto piacere. Ligabue era intrattabile solo quando si accorgeva di cedere ingiustamente schernito da chi di pittura era digiuno. Difendeva la sua arte senza però gonfiarsi mai davanti a qualunque complimento; credeva religiosamente alla sua arte, ricevendo testimonianza della validità di essa anche da parte di coloro che ne facevano raccolta pagandola pochi soldi, ma commerciandola poi e trasferendola in ambienti direttamente interessati alla sua valorizzazione.
Era pieno di manie. Per soddisfare i piccoli desideri e quindi procurarsi modeste soddisfazioni, vendeva i suoi lavori quasi per niente. Le  molte motociclette barattate coi quadri, ne sono una lampante dimostrazione.
Passava per le vie del paese montando, con la testa piegata da un lato, una di quelle gracchianti motociclette, svegliando la popolazione appisolata nell’ora della siesta pomeridiana e spaventando l suo passaggio gli animali da cortile che svolazzavano in ogni direzione.
Non era mai in regola con le leggi della circolazione.

Pagava le contravvenzioni un tanto al quadro e non si preoccupava mai se erano tante o poche. Gli bastava lo lasciassero circolare libero nel paese, nella campagna e qualche volta, e se proprio costretto da motivi di lavoro, anche in città.
La guerra era ormai nel suo pieno svolgimento. Anche qui i tedeschi spadroneggiavano in lungo e in largo, e <<Toni>> poteva finalmente parlare la sua lingua natale perché di tedeschi ce n’erano dappertutto.
Faceva da interprete ai tedeschi ma, per la verità, si prestava di malavoglia ad una funzione che lo poneva  nelle condizioni di essere sempre a contatto con soldati
che servivano rabbiosamente ed inumanamente una causa diversa dalla sua.

L’episodio di una bottigliata sulla testa data ad un soldato tedesco, pieno di boria, nell’Osteria di Gelati, sta a dimostrare la sua profonda antipatia a tutte le idee naziste.
Quell’atto di violenza e di legittimo risentimento può chiamarsi una esplosione di protesta ‘un animo non violento, ma ribelle al peso di tante imposizioni che la sua natura non riusciva a sopportare.
Nel suo inconscio, mortificato dalle sofferenze fisiche, vibrava il canto della libertà offesa dalla violenza bruta.
Si svegliava, in quel momento, in lui, che non avrebbe fatto male ad una mosca, il bisogno di lottare, a modo suo, a fianco di partigiani, che stavano compiendo allora, lo sforzo sublime per ridare al popolo la libertà e la pace.
L’alba del venticinque Aprile lo trovò fuori dalla mischia, sempre intento però a perfezionare la sua arte, che incominciava a salire le scale di un riconoscimento che a poco a poco s’andava a riverberare di gloria.
La liberazione gli diede la possibilità di intrecciare rapporti di lavoro fuori del paese e della provincia; poté stringere amicizie con appassionati e intenditori delle proprie fatiche e con quel mondo artistico che ancora lo guardava con sospetto e scetticismo. La sua primavera stava per fiorire rigogliosa. Il suo nome cominciava ad entrare nei salotti e nelle gallerie.

I suoi quadri venivano cercati e contesi da personalità e anche da sconosciuti. Le mostre sempre più numerose, venivano vagliate dalla critica giornalistica, che ancora si guardava bene dall’emettere un giudizio favorevole o sfavorevole.
Ligabue smise di vestire stracci, di dormire in compagnia di gufi e pipistrelli, di errare da una casa all’altra per offrire le sue opere. Si inserì, anche se per poco tempo, nella società dove l’arte trionfava, lasciandosi trasportare in nuovi ambienti pieni di luce e d’illusioni che gli facevano l’effetto d’una <<sbornia>> di ammirazione. Ma il suo giorno che sembrava tanto sereno, doveva ancora una volta tramontare in un notte piena di foschia  di ombre paurose.
La mente provata da lunghi e silenziosi stenti, non resse all’uso della ragione e vacillò sotto l’infuriare di un esaurimento che lo portò nuovamente all’Istituto psichiatrico di Reggio Emilia.
Non poteva essere certamente di grande giovamento alla sua arte quell’ambiente dove la realtà si deforma progressivamente e la vita pare dondoli come una foglia legata ad un ramo sempre piegato dal soffio della burrasca. Gli furono amici, in una sequenza di ombre e di luci, gli spazi vuoti ella follia, mentre l’eco dell’inno ai suoi lavori si perdeva lontano.
Venne dimesso, dopo molti mesi; ma era poi veramente guarito dalle ossessionanti
Manie che lo perseguitavano? Forse non fu mai malato; né tanto meno sano. Il distacco dall’attività di mesi vissuti tra gli scomposti urli degli alienati lo legarono maggiormente all’arte; riprese a creare non riposando quasi mai né lo spirito né il corpo.
L’effimera abbondanza economica ricavata dalla vendita dei suoi precedenti lavori non gli dava ancora la possibilità di cambiare tenore di vita, di vivere come più gli piaceva.
Offriva il prodotto delle sue sublimi foreste palpitanti di sussurri e di grida selvagge; di misteri tra veli trasparenti e scottanti pomeriggi afosi, punteggiati da sgargianti colori che baciavano la luce morente di tramonti fatti di sospiri e di accorati richiami. Offriva ciò che produceva senza valutare la sua offerta e continuava nella sua opera meravigliosamente umana.

Anch’io acquistai un suo quadro, ancor fresco di pasta colorata.
Lo incontrai una sera che aveva il quadro sotto un braccio ed il viso sporco, sotto i  portici ella maestosa piazza del paese.
<<Ho fame>>, mi disse. <<Mi mancano i soldi per comprare altri colori; del pane; vuoi il mio quadro?>>.
Lui, con tutto quel patrimonio che ogni giorno produceva con entusiasmo, era senza soldi e aveva fame. Mi ricordai in quel momento della mia fame. Dei giorni in cui anch’io guardavo la luce senza colore, perché dentro di me c’era il buio; come in lui il buio aveva sempre oscurato la luce vivida delle sue speranze. Acquistai il quadro per poche migliaia di lire che poi si moltiplicarono ogni volta che la tela, a suo dire, aveva bisogno di un ritocco, di una verniciata.
Descrivere gli amori del Ligabue è come andare a pescare in uno stagno senza pesci. Le sue manifestazioni sentimentali erano i residui degli ultimi pensieri che ogni tanto gli conturbavano la mente. Un vero amore nella sua vita, non c’è mai stato. Le rare occasioni che ebbe di accostarsi al sesso gentile, le ha sempre sciupate in manifestazioni esteriori che mai hanno inciso profondamente nel suo cuore.
Amava più di tutto e soprattutto le sue bestie, il suo particolare mondo animale. Per esso, e ne fanno fede i suoi lavori, aveva una adorazione che rasentava la follia. Per esso non dormiva la notte, non mangiava, tutto donava senza nulla chiedere, come se egli stesso fosse un tipico prodotto di quel mondo naturale ma tanto poco umano.
Le donne, no; di esse coglieva soltanto l’aspetto esteriore; le guardava passando, senza entusiasmo; non le cercava mai, forse per non esprimere sentimenti che, come lui stesso diceva, lo infastidivano.
Attribuiva loro un valore inferiore a quello dell’altro sesso, anche se le femmine della specie animale lo estasiavano e gli procuravano meravigliose sensazioni che poi trasmetteva a colpi di pennello sulla ruvida tela.

Tra gli alti e bassi dei suoi momenti migliori e dei suoi dolori più acuti, passarono altri anni; altre rughe presero dimora sul suo magro viso, anche se egli veniva conteso dagli uni e dagli altri, anche se il suo nome si era posto su una vetta che non riceveva più nessuna ombra di scetticismo. Andò via da Gualtieri, dal mendico mio dove, nella stanza campanaria, la sua cuccia era sempre libera per un eventuale imprevisto ritorno.

Ebbe il piacere di spendere una parte dei suoi guadagni che gli davano la piena soddisfazione e la illusione di aver raggiunto il massimo della felicità.
E così Ligabue risalì con aitante vigore, anche se i suoi arti si stavano già indebolendo, le aspre montagne di una gloria conquistata a forza di rinunce e di sofferenze. E quando la mano, non del destino, ma del suo valore artistico (mi sia concesso questo giudizio) lo attirò nello spazio dei suoi sogni diventati realtà, gli si troncò ogni energia; la luce della mente si indebolì e un’onda più alta delle altre lo trascinò a valle, dove la polvere aveva soffocato i fiori della vita, trasformandosi in fango, in cui non era più possibile camminare.
E fu ricoverato all’Infermeria dell’Ospedale Carri, più morto che vivo. Disteso su un lettino inadatto alle sue abitudini di errante divoratore di solitudine, in una corsia bianca, come bianchi ormai furono e sono i suoi pensieri senza guida. Si è fermato forse a respirare l’aroma degli effluvi emanati dai fiori esotici che, assieme alle sue maestose belve, ha immortalato sulla tela.
Non vive, mentre i suoi lavori vivono  e diventano sempre più preziosi. Egli attende l’ora di andare a posare il piede, dove i castelli sono ancora abitati da demoni che stregano i suoi cavalli normanni. Non è solo a soffrire, a tacere, a ricordare un passato che diventa di fuoco e brucia la insofferenza di quelli di ieri, perché gli amici di oggi sono sempre gli stessi. C’è chi gli vuole bene; chi lo ha aiutato spingendolo avanti sulla via dell’amore all’arte, la sua fedele ed unica signora, facendolo conoscere al mondo. Egli non pensa più a nulla. Forse, nella sua incoscienza, continua a sognare. Forse, con la fantasia continua a dipingere le tele meravigliose  che dapprima hanno stupito e confuso e quindi conquistato un mondo freddo e già poco facile all’entusiasmo. Il gigante s’è fermato a Gualtieri, e Gualtieri con la sua anima schietta gli allevia gli ultimi giorni, come ieri gli ha alleviato i primi, quelli del suo ritorno e del suo duro e umile lavoro.>>

EXTRATIME by SS/ La cover/patente e la fotogallery ‘dimostrano’ l’artista e l’uomo Antonio Laccabue / Ligabue. Un pittore naif ed immortale che sempre più il “Mondo Contemporaneo” continua ad onorare come artista in tante mostre nelle più grandi città italiane, da Milano a Roma a Firenze,
Come certificano le locandine/manifesti corredate dalla immagini di alcuni suoi quadri, con i suoi animali feroci abbinate ai suoi autoritratti.
Fino all’ultima immagine/icona che recita: <<RUGGITO, Antonio Ligabue, la lotta per la vita>>.


Sergio Sottovia
www.polesinesport.it