Sahara Marathon Story by Mattia Durli & il libro “La Corsa Verso il Mare/ Saharawi: l’odissea di un popolo in fuga”. Un dramma da risolvere, raccontato by Roberto Rubens Noviello ‘maratoneta’


Da Boris Padovan a Ruben Noviello il passo è breve. Un World tour partito da Fetonte City (con Boris) e arrivato al punto di partenza ( il Saharawi e cresci… spino, con Rubens).
E – come disse il poeta - partirai per altri mondi, ti perderai per altre strade sconosciute, sarò con te dove andrai…
Poi la vita ti lega ad un …granello di sabbia. Già la realtà! Ma comunque liberi di pensare e ..fare qualcosa. Chissà dove, chissà quando.
Ecco , Rubens Noviello è andato a ‘fare’ la Sahara Marathon, ma la Sahara Mararthon c’era già da una decina d’anni e l’aveva ‘fatta’  Mattia Durli come organizzatore.
Tutto perché c’era soprattutto il popolo Saharawi, ho detto popolo e non la ‘nazione’ frutto di ‘libera determinazione’ secondo i principi dell’Onu ma non ancora realizzati.
E allora come faccio a scrivere ‘soltanto’ della visita di Ruben Noviello a Crespino, per una serata organizzata dalla Biblioteca Civica, in primis Marinella Barbieri e  Ariella Marzolla) su segnalazione di Boris Padovan, figlio di crespinesi e perennemente in World Tour  tra Padova, States e Antartide, Australia e dintorni mondiali.
Una serata prevalentemente più tra apostoli che tra amici, ma che potrà avere un seguito con Rubens ‘buon seminatore’ tra gli studenti delle Scuole Medie. Anche per questo (grazie ad una mail by Ariella Marzolla) ho voluto proporre in Appendice quanto ha scritto Gianmaria Alberghini, sindaco dei Ragazzi di Crespino e pubblicato sul 'Corriere della Scuola' nel giugno 2012.
Diciamo che ancora una volta Rubens è stato un prototipo e un precursore come lo è stato Mattia Durli quando ha ‘pensato e realizzato’ la sua prima delle tante maratone, auspicando che quella nel Saharawi in Algeria ‘più prima che dopo’ …non si disputi più, perché significherebbe che anche il popolo Saharawi ‘sarà libero in casa propria’.

Per tutto questo , della visita di Rubens a Crespino parlerò soltanto nell’Exratime (in didascalia a commento foto) , mentre ciò che conta è , attraverso il libro e i pensieri Made in Sahara Marathon, rappresentare la centralità del “Saharawi People” e noi lo facciamo nella sua interpretazione autenticamente espressa nel Libro by Ruben Noviello.
E cioè , in sequenza trio kit news, grazie alla ‘Prefazione’ by Mattia Durli e i “Ringraziamenti” by Rubens Noviello, di cui aggiungiamo in Appendice le sue ultime “Considerazioni by Sahara Marathon 2012”  raccontate poi sul sito www.100kmdelsahara.com ; cioè “il
Il racconto di Roberto Noviello ...detto Rubens” ovviamente da libro-cuore ‘maratoneta & dintorni’.


PRIMA NEWS/ PREFAZIONE ( by Mattia Durli -  organizzatore Sahara Marathon)/ DAL LIBRO “LA CORSA VERSO IL MARE” / SAHARAWI: L’ODISSEA DI UN POPOLO IN FUGA
<<Io sono uno dei tanti che è arrivato ai Saharawi con l’idea di correre e di fare un bel viaggio.
E sono uno dei “molti” che ai campi è tornato.
Dei “molti” a cui una corsa, e tutto quello che c’è intorno, ha in qualche modo cambiato molti anni della propria vita.
Chi sono i Saharawi lo spiega un altro di quei “molti” in questo libro, la cui lettura vi porterà a conoscerli  a vederli, attraverso le parole, con i vostri occhi.
Cosa sia invece al Sahara Marathon, come è nata, e cosa è diventata, provo a spiegarlo io.
Sono passati dieci anni dalla prima edizione di questa corsa e trentacinque da quando per i Saharawi è iniziato l’esilio nei campi profughi in Algeria.
Un terzo di anni quindi li abbiamo percorsi insieme.
L’idea all’origine era semplice: portare gente a vedere cosa stava succedendo in quell’angolo di mondo dimenticato e in che condizioni, per motivi esclusivamente politici ed economici, era costretto a vivere un popolo.
Persone che avrebbero aperto le braccia a questi visitatori, ospitandoli e dando loro tutto quello che potevano offrire.
Non volevamo portare necessariamente il genere di persone già a conoscenza di questo tipo di problematiche, legate al mondo della solidarietà, del volontariato, e che magari già lavoravano per altre popolazioni in condizioni simili. L’obiettivo era portare persone nuove. La scusa era quella di correre una maratona, le persone erano corridori. Sarebbe stata una maratona classica, sarebbe stata una delle più dure, ma alla portata di tutti. Una corsa che avrebbe toccato tre dei quattro campi profughi, partendo da uno, passando il secondo e concludendosi al terzo.

 

 

E nei lunghi chilometri tra i campi, attraversando il deserto, l’hammada, i corridori avrebbero visto uno spettacolo desolante e bellissimo nel suo isolamento. Il deserto algerino, tra i più inospitali del mondo, ma che con i suoi colori è la casa dei Saharawi da 35 anni. Ma non ci sarebbe dovuta essere solo la maratona, perché qualunque corridore avrebbe dovuto avere la possibilità di partecipare. Si decise quindi di organizzare anche una ventuno chilometri, una dieci chilometri e una cinque chilometri.
Chiunque poteva correre, dal maratoneta esperto alla ragazzina. Saharawi che correva la “cinque”, da chi non si sentiva di andare oltre la “ventuno” a chi accompagnava qualcuno nel viaggio e voleva camminare nel deserto tutta la “dieci”. E tutta questa gente che veniva ai campi sarebbe stata come tradizione ospitata dalle famiglie Saharawi, dormendo nelle loro tende, mangiando con loro, vivendi con loro una settimana, e cercando in una settimana di capire cosa significa vivere in esilio in mezzo al deserto, in quelle condizioni.
Il primo anno eravamo più di cento, l’anno corso, alla decima edizione, più di ottocento.
La Sahara Marathon che non esiste, che non è un marchio registrato in nessun paese. Nessuno si è mai curato di farlo. A nessuno interessa farlo.
La Sahara Marathon è un gruppo di persone che si sono avvicendate in questi dieci anni per lavorare insieme, volontari italiani, spagnoli,americani, tedeschi e amici Saharawi.
C’è chi ha vissute tutte le edizioni, chi è andato e venuto, chi è tornato, chi è venuto una sola volta dalla Norvegia ed è tornato l’anno seguente portandosi quindici persone.

C’è chi non fa parte del gruppo degli organizzatori ma viene ogni anno a correre, e quando vede che sei in difficoltà a gestire un gruppo di nuovi arrivati ti dice “non ti preoccupare e fai quello che devi fare, a loro ci penso io”.
In dieci anni diverse migliaia di esone sono venute ai campi per partecipare alla Sahara Marathon, e per scoprire chi sono i Saharawi.
Tutte queste persone sono tornate a casa e ne hanno parlato ai loro amici e ai familiari. Molti di loro sono rimasti in contatto con noi e tanti hanno organizzato incontri nelle loro città o paesi, per parlare della loro esperienza.
C’è chi ha fatto mostre fotografiche e chi ha scritto libri, come questo che leggerete.
A contribuire all’opera di conoscenza e sensibilizzazione non sono solo i partecipanti, ma anche i giornalisti e le televisioni attirati da questo evento.
Scopriamo così che nel corso di un anno i media parlano più dei Saharawi grazie a qualche centinaio di persone che vanno a correre nel deserto, che per la insostenibile situazione in cui è costretta a vivere questa popolazione.
E tanti altri si sono chiesti che altro potevano fare, se potevano anche loro aiutare in concreto i Saharawi, cominciare un loro progetto ai campi.
Altrettanto utili sono stati tutti i progetti creati non dalla Saharawi Marathon, ma nati intorno a lei.
Di istituzioni, associazioni, singole persone che hanno chiesto il nostro aiuto e i nostri consigli per far nascere e portare avanti un loro progetto ai campi: educativo, medico, alimentare, sportivo. E’ sempre stato un incontro proficuo per tutti, perché ha dato la possibilità a tante persone impegnate in diversi progetti di conoscersi e aiutarsi a vicenda.
La possibilità di conoscere persone con cui è bello lavorare, perché con disinteresse danno tutto quello che possono, senza scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, senza mai fermarsi, è forse quello che mi ha dato di più personalmente. Persone su cui sai che potrai sempre contare negli anni successivi. Perché questa è ormai una cosa che fa parte della loro vita.

Nel corso degli anni abbiamo sempre cercato di aggiungere qualcosa al progetto originale e alla maratona dell’anno precedente. E’ nata così, verso la terza edizione, l’idea di finanziare con la quota di partecipazione svariati progetti. Quindi portare materiale sportivo, costruire centro sportivi e ricreativi per giovani, uno in ognuno dei campi profughi. Abbiamo creato piccole attività lavorative per i giovani e le giovani Saharawi. Obiettivo: generare reddito.  
Ad esempio il progetto per la creazione ai campi, di medaglie fatte con materiale riciclato, da vendere a chi vuole premiare  i partecipanti ai propri eventi sportivi nel mondo con un prodotto della solidarietà. E così, chi in una corsa in qualsiasi parte del mondo riceverà questa medaglia di latta e pelle, con un cartoncino che spiega la storia del Saharawi, coprirà qualcosa di nuovo, si farà domande e cercherà maggiori informazioni.
Un partecipante una volta mi disse:”ho intere casse di medaglie che tengo in cantina… di tutte le corse che ho fatto nella mia vita. Questa medaglia la tengo esposta in casa”.

 

 

Piccole attività nate i pieno deserto come quella sviluppatasi a Dakhla, nella scuola delle donne: turbanti che vengono creati e abbelliti con il logo della Sahara Marathon per poi essere consegnati ad ogni atleta, che scoprirà che questi capi di abbigliamento non sono un vezzo ma un modo insostituibile di proteggersi dalla sabbia e dal sole.
Ma mancava qualcosa per i più piccoli, e abbiamo deciso di organizzare la corsa dei bambini, delle diverse scuole, nel campo di Smara.
Vederla è, per molti, uno dei momenti più belli del viaggio.
Per noi è la felice fatica di trattenerli a stento alla partenza, per l’impeto che hanno di raggiungere l’arrivo, con la medaglia e il piccolo regalo che li aspetta.
Ma la Sahara Marathon è anche chiedere ai partecipanti di affrontare il lungo viaggio in una carovana di autobus e camion per andare al remoto campo di Dakhla, per fare anche lì, in questo campo poco visitato perché ancora più difficile da raggiungere, un progetto, una corsa da bambini, o anche solo per far vedere ai Saharawi che lo abitano che non ci stiamo dimenticando di loro.

La Sahara Marathon non è una corsa che si celebra in un giorno. Non abbiamo mai voluto che fosse solo per questo. I partecipanti dovevano stare ai campi una settimana, perché era l’unico modo di dar loro il tempo di calarsi nella vita delle famiglie Saharawi d cui erano ospitati. E acquisire il tempo lento della loro vita. Parlare con loro, bevendo insieme il tè. Il nostro compito era di fare il possibile perché queste persone tornassero pienamente informate dal luogo in cui erano state. Era quindi importante organizzare visite alle loro strutture pubbliche, come scuole e ospedali, o il loro museo nazionale, e incontri con le autorità locali. O con le avocazioni delle donne.
Tutto ciò che si organizza ruota attorno a quel giorno, quel lunedì in cui ci si alza alle 6 per fare colazione tutti insieme e per dirigersi verso la partenza. E dove un coro di bambini canta una canzone di benvenuto. Quel coro no, non lo abbiamo organizzato noi. Ci hanno pensato gli insegnanti della scuola da cui si parte.
Quel giorno che in tanti mi chiedono nei mesi precedenti:”Quanto caldo sarà nel deserto?”. E io non posso che rispondere che non lo so, che dipende dal vento, che è imprevedibile.
Dico loro che certi anni abbiamo avuto temperature insopportabili,  e altri invece freddo. Edizioni in cui la tempesta di sabbia è durate le settimane prima durante i preparativi e si è placata il giorno prima della corsa.
O, peggio, viceversa. E’ difficile trasmettere lo spirito della Sahara Marathon.
Abbiamo sempre voluto che questa corsa fosse qualcosa di completamente diverso da tutte le altre, unica. Per noi è sempre stata una priorità dare ai partecipanti tutto quello di cui avevano bisogno, e niente di più. Vivere per una settimana esattamente come le famiglie Saharawi che li ospitano. Perché capiscano che le difficoltà che loro incontrano in quella breve settimana, per ii Saharawi è per tutto l’anno. Da trentacinque anni.
Siamo felici di vedere la curiosità della gente nello scoprire questo mondo che gli era sconosciuto; felici di vedere che chi era venuto con l’idea di fare solo una corsa e un viaggio ora apre gli occhi e si pone tante domande.  Curiosi di notare la loro tristezza quando devono separarsi dalle famigli con cui hanno convissuto.

E altrettanto bello è ridere insieme delle tante difficoltà, dei mezzi di trasporto che non arrivano, che si rompono, della cena che tarda e del briefing pre-maratona a lume di candela perché è andata via la luce in tutto il campo. Ma è difficile, in una situazione dl genere, lamentarsi di qualcosa, e l’attitudine positiva di chi sceglie di organizzare l’evento e di chi sceglie di parteciparvi, aiutano a uscire da qualsiasi difficoltà.
Ci piace pensare che ogni anno è l’ultimo anno che organizziamo la Sahara Marathon ai campi. Perché questo per noi significherebbe solo che i Saharawi sono tornati nella loro terra.
Io e Brahim, con cui lavoro alla Sahara Marathon da dieci anni, abbiamo entrambi trentacinque anni, il tempo dell’esilio. Tutte le persone di questa età, eccetto pochi fortunati che hanno potuto studiare fuori dai campi, sono nate e vissute lì, senza mai vedere altro.
L’anno scorso, mentre ripercorrevamo in jeep il percorso della maratona la settimana prima dell’arrivo dei partecipanti, gli ho chiesto se avrebbe mai pensato che saremmo stati ancora lì a organizzare questa corsa dopo dieci anni. Mi ha detto:”Sono stati dieci anni duri per i Saharawi. E altri cene aspettano.”
Ogni anno, alla fine della corsa, cerco di immaginare come sarà questo stesso giorno quando la corsa non si farà qui, ma nel Sahara libero, con gli stessi amici, Saharawi e non, con cui abbiamo condiviso questo viaggio. Già so che ci saranno tutti, quelli che hanno vissuto ai campi e quelli che sono venuti ogni anno, per lavorare e per divertirsi, condividendo i momenti  difficili e felici, convinti che la Sahara Marathon è un bellissimo modo per fare rumore.>>

Mattia Durli
Organizzatore Sahara Marathon

 


SECONDA NEWS/ “RINGRAZIAMENTI FINALI” ( by Roberto Rubens Noviello)/ DAL LIBRO “LA CORSA VERSO IL MARE” / SAHARAWI: L’ODISSEA DI UN POPOLO IN FUGA
<<Il capitolo dei ringraziamenti del primo libro scritto, scopro essere un momento molto particolare per l’esistenza dell’autore.
Non ho assegnato il numero a questo capitolo.
Voglio che quelli scritti rimangano quarantadue come il numero dei chilometri delle mie maratone.
Stasera, seduto su questo argine che fa da cornice alla mia quotidianità, ripercorro idealmente la strada che mi ha portato a questo momento.
Una sorta di retrorunning.
In vita mia ho corso varie volte nel deserto. Ho superato molte dune; a volte in splendido isolamento, altre volte con compagni di viaggio unici.
Mi sono lasciato vincere dall’immenso amore che nutro per questo ambiente così particolare, in grado di regalare ogni volta sensazioni profonde.
Un amore personale che non ha mai contemplato, in maniera specifica, la poca gente che vive nel deserto.
C’è sempre stato solo un rapporto tra me e ciò che la natura mi offriva.
Mi sono quindi avvicinato al Saharawi con la curiosità e la voglia di capire e vivere le emozioni che questa gente è in grado di provare.
L’impatto che si subisce nell’entrare in contatto con questi popoli è devastante per gli stupidi stereotipi con i quali siamo abituati a convivere.
Come una splendida maratona in cui i miei passi si rincorrono l’uno con l’altro e ognuno di loro ha una propria dignità, anche le mie parole, in Algeria, s sono rincorse, una dietro l’altra e ognuna con il proprio perché:
Ciò che ha mosso  i miei pensieri e la mano sul block notes sono le persone care che mi insegnano a vivere. Quei pochi che con la loro intimità animano i miei giorni così impregnati di sentimenti, dai quali mi faccio avvolgere e travolgere.
Shukran, grazie, ai Saharawi prima di tutto.
Grazie alla curiosità e alla maledetta voglia di mettermi in discussione e di rapportarmi con chi ha voglia di sopportarmi.
Shukran a chi questa voglia di crescere me l’ha innestata, mia madre, e a chi spero la porterà in giro, i miei figli.
Shukran  a te che sei alla fine dello scritto.
Ti consegno il filo da far girare. Ricorda che servirà a te per crescere e ai Saharawi per tessere la tela della libertà.>>

 

 

 

TERZA NEWS (www.100kmdelsahara.com) / SAHARA MARATHON 2012/ IL RACCONTO DI ROBERTO NOVIELLO… DETTO RUBENS
<<La sveglia suona presto il 7 marzo, è stata una notte insonne. I consigli dei veterani del deserto mi hanno fatto imbottire lo zaino di cerotti, abbigliamento tecnico, creme solari e quant’altro possa servire per sopravvivere al caldo africano. L’ipod è carico di musica adattata al mio passo. La macchina fotografica è pronta ad immortalare le mie aspettative. Alle quattro e un quarto Federico, il mio migliore amico, carica me e le mie ansie in macchina. Direzione Tessera Aeroporto Marco Polo.
 La partenza e’ stata preceduta da un paio di giorni di concentrazione e isolamento nei quali molti miei pensieri sono volati al Sahara. Cerco di sminuire le paure che ogni tanto mi assalgono; le assecondo confortandomi ..”quindici maratone e il Passatore dovrebbero essere sufficienti per farti star tranquillo…” Mi sollevo un po’ ma dentro so che non mi sono allenato come dovevo e volevo. Allenamenti tra pioggia continua, neve e su sabbia che nemmeno da lontano assomiglia a quella del deserto. Ma soprattutto ho male alla gamba. Non lo dico a nessuno perché voglio esorcizzarlo questo male. Lo sanno Stefano e Marco i miei angeli custodi dello studio Riabilita. Le loro mani esperte trattano i miei muscoli come figlioletti e il loro lavoro si rivelerà straordinario.
 All’aeroporto ho i primi contatti con quelli che saranno alcuni dei miei compagni di avventura. Ci riconosciamo dal marchio “Terramia” che etichetta i maratoneti e i loro zainetti e giubbotti. L’aereo per Roma parte alle 6.35 ma già un’ora prima si formano i primi capannelli di runner che snocciolano i loro tempi nelle maratone. Non riesco a non sottolineare che abbiamo tutti gli stessi dubbi, le stesse ansie ma soprattutto lo stesso obiettivo.
A Roma il capannello di maratoneti s’infittisce e con esso aumenta la mia curiosità di conoscere le storie che hanno condotto a questa sala d’attesa tutti questi corridori; c’e’ chi ha voglia di riscattarsi da situazioni familiari sfuggite di mano; seguo con lo sguardo Marco, che è stato operato tre mesi fa di tumore, mentre osserva dal finestrone del terminal romano l’aereo della Tunisair che ci attende in pista; c’e’ chi cerca nel deserto nuovi stimoli ed emozioni da riportare nello zaino. La mia curiosità si esaurisce con l’annuncio dell’imbarco del volo: sono le 17:35 e lasciamo l’Italia.
 La Tunisia ci accoglie con un vento gelido che spira dal mare. Le notizie che abbiamo ricevuto da chi è già ospitato all’hotel Des Alizes a Djerba parlano di continue tempeste di sabbia che stanno imperversando sul tracciato di gara. L’hotel si rivela freddo come l’aria; qui incontro Gianfranco il mio amico giornalista che da mesi scrive del suo avvicinamento alla 100km del Sahara. Ha scritto anche di me sul giornale e questa visibilità se da un lato mi ha fatto piacere dall’altro mi ha responsabilizzato ulteriormente. Conosco Paolo Venturini esperto runner e grosso conoscitore di gare ed ambienti estremi. Mi da l’impressione di essere un ragazzo che, a differenza di noi, e’ qui per lavorare e che sostanzialmente ha voglia di farsi gli affari suoi. Mi sbaglierò.
 Mi assegnano una camera doppia da dividere con Massimo un ragazzone di quasi due metri di Genova. Il letto e’ rigorosamente matrimoniale e la scena è un po’ imbarazzante: decido da quale parte dormire. La prima notte in Tunisia scivola nervosamente e con essa aumenta l’ansia man mano che ci si avvicina al giorno della partenza.

 

 

 L’8 marzo inizia alle 6,30. Il programma prevede il viaggio in autobus con destinazione Douz oasi dalla quale partirà la gara. Dobbiamo coprire circa 450 km ed è prevista una sosta a Matmata dove sarà tenuta la presentazione ufficiale della gara. In viaggio sono solo con il mio ipod. Davanti a me Paolo tossisce e starnutisce in preda all’influenza. Con il passare dei km allontanandosi dalla costa il paesaggio si inaridisce. E’ la festa della donna ma le uniche donne che scorgo sono quelle velate che portano al pascolo le capre. Matmata è un bel paesino situato in una zona pre-desertica ed è caratterizzato dalla presenza di case troglodite scavate nella pietra. In una di queste, dopo averci radunato, Adriano Zito e il suo staff ci spiegano i dettagli delle giornate che ci attenderanno. Le sue parole riecheggiano nella piazzetta addobbata per il briefing “So che vi aspettate una gara dura e noi abbiamo fatto di tutto per non tradire le vostre aspettative” e il suo traduttore ci aggiunge anche “..Will be hard…”
 Ripartiamo da Matmata con queste parole nelle orecchie. Dopo un’ora dai finestrini lo scenario muta di nuovo. Si capisce che stiamo avvicinandoci al deserto; la strada e’ una lunga striscia di asfalto tra ali di sabbia cosparse di bassi cespugli. Di colpo appare una fitta vegetazione. Siamo entrati nell’oasi. Douz e’ denominata la “porta del Sahara”e il nostro hotel ne è la vera dimostrazione. La finestra della mia camera (condivisa sempre col gigante genovese) affaccia sul deserto. Il vento gelido di Djerba si è trasformato in una calda brezza di aria calda che spira in direzione Sud-Est la direzione della corsa.
 Il gruppetto dei veneti di Tessera e Fiumicino si ricompone e così si cerca assieme di esorcizzare le paure e di stemperare l’ansia dell’attesa. Conosco Mauro un ragazzo di Piove di Sacco intento a leggere un libro comprato all’aeroporto. Assieme a lui mi accingo alla cerimonia della consegna dei pettorali. Mi viene assegnato il numero 98 e dopo il controllo del kit di sopravvivenza (telo termico, sali minerali, barrette energetiche, fischietto, accendino) mi viene scattata la foto ufficiale da pubblicare nel sito e da mettere agli atti. C’e’ inoltre la possibilità di formare dei team che lotteranno per una classifica alternativa a quella individuale. Concretizzo la possibilità adoperandomi per formare la squadra che battezziamo “I love Prosecco” riunendo anche quelli che saranno i componenti veneti della tenda per i giorni successivi. Io, Paolo, Loris,Francesco (lo straniero di Lecce), Mauro e Gianfranco. Ci scherziamo sopra ma a giudicare dai tempi che ognuno di noi dichiara non dovremmo poi essere una squadra messa male. Io, Loris, Mauro e Angelo (di Monselice ma assegnato ad un’altra squadra) ci incamminiamo in seguito verso la duna dalla quale partiremo il giorno seguente. Quello che ci si presenta innanzi è uno spettacolo mozzafiato: siamo al tramonto e il deserto dall’alto si estende all’infinito. Eccolo il Sahara. Ecco la sabbia che ha molestato i miei sogni e che in pochi passi si e’ già presa gioco delle mie scarpe da corridore.
 Finita la cena sistemo l’abbigliamento e gli accessori per la prima tappa. C’e’ qualche fuga di notizie sulla tipologia di percorso che affronteremo all’indomani. L’attesa è densa di domande che passano da un tavolo all’altro: ci sarà il vento della settimana precedente? Le ghette sono da usare? Il caldo ci attanaglierà?
 La notte per me è un incubo. Non chiudo occhio e alle 2,30 mi ritrovo ad osservare la luna piena che splende sulla duna dove domani sarà piantato l’arco gonfiabile della partenza.
 La colazione del 9 marzo e’ fugace. Io, Gianfranco e Loris ci guardiamo spesso negli occhi. C’e’ poca voglia di parlare e quello che ci si dice e’ ripetitivo. Sono contento di iniziare l’avventura. Questi due giorni di avvicinamento mi hanno logorato e hanno amplificato le mie (e quelle degli altri) aspettative.
 Alle 10,00, dopo aver salutato i walkers, siamo sulla collina di Douz. Non c’e’ vento. Non c’e’ il caldo impressionante del giorno prima. Adriano Zito nel briefing pre-gara ci da i dettagli tecnici del percorso. 22km fino al camp1 di Bir el Kacem. C’e’ un misto di euforia ed eccitazione quando l’organizzazione scandisce all’incontrario i secondi che mancano all’inizio dell’avventura. Cinque, quattro, tre, due, uno. VIA. Ho il cuore che pulsa come un martello pneumatico. Devo controllare le mie emozioni ed usare le gambe adattandole alla mia strategia che prevede di non forzare l’andatura perché in fondo è una corsa a tappe ed il giorno dopo mi aspetta subito la maratona.
 L’impatto con il percorso e’ tremendo: subito 8 km di dune. Non sono alte ma impongono un martellante e continuo sali-scendi sul percorso sconnesso. I polpacci urlano e i tendini dei miei piedi sono subito infiammati. Sto bene con le gambe quando le dune lasciano il passo ad un percorso più piatto. In teoria la strada dovrebbe essere popolata di pietre e permettere quindi di allungare il passo e dare un po’ di sollievo alle caviglie. La realtà invece dice che la sabbia nelle settimane precedenti ha invaso tutto trasformando i sentieri in un soffice manto sabbioso. Corro bene. Riesco a godermi il paesaggio. Batto il cinque ad un pastore di 15 anni al massimo che mi urla “Italiaa Unoooo”. Sorrido esterrefatto pensando che sono nel deserto ed un beduino mi ha appena urlato uno slogan “mediasettiano”. Al ristoro mi rifocillo. Ho paura del caldo che aumenta anche se l’assenza di umidità non mi fa pesare i km che passo dopo passo mi lascio alle spalle. In corsa affianco quelli che saranno visi e volti che incrocerò durante i pomeriggi e le serate nei campi. Supero e incito Massimo il genovese con il quale ho dormito nel lettone matrimoniale. Scambio due parole veloci con Kong l’atleta della Malesia. Mi presto volentieri all’obiettivo dei vari fotografi disseminati lungo il percorso e con un pizzico di vanità sistemo il mio stile di corsa quando mi sento inquadrato. A due km dall’arrivo una ragazza americana taglia perpendicolarmente il percorso di gara. Si allontana in maniera sospetta dal tracciato e quando allungando la raggiungo mi accorgo che è in confusione totale. Arriva subito un quad con a bordo un fotografo. Io riparto velocemente. Ritroverò la ragazza in infermeria con un flebo al braccio.

 

 

 A Bir el Kacem arrivo 49esimo in 1h52’. Sono andato meglio rispetto a ciò che mi ero prefissato. Soprattutto sto bene con le gambe e i mali italiani curati da Stefano e Marco non si sono fatti sentire. “I Love prosecco” ha fatto furore: Loris è secondo, Paolo dodicesimo, Mauro 22esimo. Gianfranco si difende con un buon tempo.
Cominciamo ad assaporare la vita in tenda berbera dove alla fine siamo in cinque (Gianfranco e la figlia si sistemano altrove) Questo tendone di pelle di cammello è aperto da un lato. E’ sorretto da bastoni. Sotto,una stuoia e un materassino, accolgono i nostri corpi stanchi ristorati dall’unica doccia rigorosamente ghiacciata. Ci raccontiamo le emozioni della gara. Capisco che con me c’e’ gente che corre veramente forte e sono contento di condividere con loro anche le tensioni agonistiche. Paolo continua a star male ed è sotto antibiotici. In tenda c’e’ una bella atmosfera. C’e’ sabbia ovunque e ogni spostamento di borse e indumenti, visto il poco spazio, dev’ essere calcolato al centimetro. Paolo ci intrattiene con i racconti delle sue avventure estreme e un po’ tutti proviamo invidia per questo bel poliziotto che gira il mondo assieme ai suoi fotografi e al suo cameraman.
 Ogni tenda è identificata con un numero. La nostra e’ la 19. Accanto abbiamo la tenda dei tedeschi del campione Jorge. La parte alta dell’accampamento viene chiusa dal tendone medico e dalle due tende adibite una alla distribuzione del cibo l’altra a ristorante vero e proprio con le sue belle panche e tavoli in legno. Dietro le tende stazionano le autobotti, le cucine ed i mezzi delle tv e dei giudici.
Ci hanno dotato di una gavetta in alluminio per bere nonché di un set di posate in acciaio. Il tutto all’interno di una retina. Il bicchiere si riempie puntualmente di sabbia e le posate malgrado i continui risciacqui sono sempre sporche. Nel campo non esistono bagni. Il via vai di atleti che si nascondono ai margini del campo tra le dune o dentro i cespugli sarà una costante dei quattro giorni di gara. La prima notte mi ritrovo accovacciato ed in “spinta” sopra una duna grigia illuminata a giorno dalla luna piena con le stelle che sembrano adagiarsi sulla sabbia..quando mi richiudo nel sacco a pelo sorrido al pensiero di aver fatto i miei bisogni in uno scenario da poesia.
 Nel primo pomeriggio lo spirito e’ alto ma i pensieri volano al giorno seguente e alla maratona che ci aspetta. L’impressione che si ha è che sarà molto dura. Attorno al fuoco ci diciamo che non possono aver disegnato un tracciato molto difficile perché si correrebbe il rischio di perdere metà atleti. Il fuoco però illumina facce preoccupate. La sera ci consegnano le email spedite dall’Italia. Quando chiamano il mio cognome mi emoziono. Torno a vent’anni fa quando in caserma mi chiamavano per consegnarmi la corrispondenza. Ricevo molti messaggi..molti anche rispetto agli altri. Sento il dovere di giustificarmi con chi mi prende in giro “io ne ricevo molti perché lavoro nel campo dell’ informatica e quindi tutti i miei amici scrivono email”. In realtà sono contento di leggere le parole di incoraggiamento anche di persone che non sento da tempo. Nel sacco a pelo con la pila puntata mi rileggerò spesso le email per caricarmi…
 La notte che precede la maratona dormo male e sono preda di brutti sogni.
 Il 10 marzo la sveglia arriva prestissimo. Intorno alle 6 c’e’ già gente che girovaga per il campo. Non fa freddo. Mi dirigo presto in tenda ristorante. E’ curioso trovarsi in centocinquanta maratoneti durante la colazione. Ci sono riti diversi e ognuno si alimenta in maniera differente seguendo le varie leggende che girano attorno alla colazione dei corridori: c’e’ chi beve un semplice caffè e latte, chi si spalma di tutto sulle fette, chi mangia solo miele, chi mangia solo affettati. Io bevo caffè e latte, mangio una crostatina di mele e mi spalmo marmellata su un paio di fette biscottate. Requisisco dei pezzi di grana che mangerò durante la gara.
 Alle 8,30 parte il primo scaglione di atleti. Sono quelli che nella prima tappa sono andati più lenti. Alle 9,30 parte il secondo scaglione. I top-runner, ahime’, partono alle 10,30 e io per qualche minuto ci sono finito dentro. C’e’ il rischio di correre l’intera gara in splendido isolamento e inoltre con lo svantaggio di avere, alla partenza, una decina di gradi in più rispetto ai scaglioni precedenti.
Parto convinto a al mio fianco corre Francesco di Lecce mio compagno di tenda. E’ alla sua prima maratona. Gli ho dato i consigli che darei ai miei atleti e decido di tirarlo e gestirlo per l’intera corsa. Lo freno quando accelera incautamente e lo sprono quando rallenta. Il percorso è durissimo. Tanta sabbia e dune sin da subito. Salite. Tantissime salite. Mentre corro dico a me stesso che non esistono deserti in salita. Alla fine della gara il dislivello positivo che faremo sarà di 1400 metri. Primo ristoro al 15esimo km.Stiamo bene e continuiamo a tenere un’ottima andatura. Tutto fila liscio fino al 28esimo km quando raggiungiamo Mauro che è in crisi. Gli faccio coraggio anche se perdo il ritmo e comincio ad accorgermi che il coraggio forse sarebbe meglio che lo ricevessi. Il vento si e’ abbassato e fa caldissimo. Al riparo dalle dune sembra di essere in un forno. Nell’aria ci sono 38 gradi e i miei piedi in fiamme mi urlano che per terra ci saranno almeno dieci gradi in più. Bevo. Ho paura di disidratarmi. Al 30esimo km una fitta atroce mi chiude lo stomaco. Crampi addominali. Mi sembra di aver le doglie e ad ogni fitta è come se mi sferrassero un pugno allo stomaco. Mancano 3 km al 33esimo dove c’e’ il secondo e ultimo ristoro. Vi giungo correndo e un lazzaretto è pronto ad accogliermi. C’e’ gente ovunque..in piedi che vomita, gettata per terra. Dottori che in affanno cercano di soccorrere gli atleti. C’e’ Paolo che si è ritirato al 24esimo. C’e’ Gianfranco, partito con il primo scaglione, che vi è arrivato da un po’ ed è in preda ad attacchi di diarrea. Addio “I love prosecco” penso mentre mi butto per terra e vomito. Il medico mi guarda la lingua e mi sente le pulsazioni. Mi dirà poi che ero bianco come la morte. Mi dice che in quelle condizioni non mi conviene procedere. “Non posso mollare a 9 km dall’arrivo”. Il medico mi guarda strano ma la risposta che gli do non lo sorprende affatto. Ritorna con una siringa e mi inietta un plasil. Riparto correndo. Mi impongo di distrarmi mentalmente per far passare il tempo mentre passo dopo passo mi avvicino al traguardo. I primi 3 km riesco addirittura a godermi lo splendido paesaggio. “6 km Rubens..e ci siamo”..crollo ancora e vomito. Ora lo devo fare all’ombra dei cespugli. Sarebbe pericoloso fermarsi sotto il sole cocente. Quando mi rialzo cammino..non ce la faccio a correre. Ho i piedi che bruciano e sento che il caldo mi ha gonfiato i piedi e che le vesciche hanno iniziato a reclamare. Sulle dune riesco anche a ridere di me stesso immaginandomi come quegli omini dei fumetti che urlano “acqua” nel deserto..Vomiterò altre 8 volte prima di arrivare sotto l’arco rosso di camp 2 a Bir el Grijma. Tempo 5h52’. Perdo molto tempo..eppure ho tanta gente dietro di me. Ma cos’e’ successo? Passo davanti all’infermeria: e’ piena e fuori c’e’ una lunga fila di persone che attende il proprio turno. Non ho la forza di prelevare le valigie al centro del campo. Loris si preoccupa per me. Lui è andato forte anche se ha perso molto tempo dal tedesco. Francesco chiude in 5h15’. Sono orgoglioso per lui e felice di averlo aiutato. Non riesco a farmi la doccia: non ho le forze e si e’ alzato un vento fastidioso. Le salviette umidificate lavano in parte i miei sudori. Ho i piedi spaccati dalle vesciche che mi bruciano. Piu’ tardi in infermeria, sotto l’obiettivo della macchina fotografica di Mauro, mi taglieranno col bisturi la pelle del pollicione. Cerotti e creme si impadroniscono dei miei piedini. Alle 19:00 mi ritrovo in tenda a leccarmi le ferite. Riesco a malapena a srotolare il sacco a pelo. Sto male fisicamente ma sento che sto caricandomi di energie dal punto di vista mentale. Sono sereno e continuo a ripetermi che non devo pensare ai miei piedi. Lo stomaco in fondo ha smesso di darmi noia.
 La serata nel tendone ristorante ci unisce ancora di più. Sono tutti distrutti ma c’e’ un bel clima di eccitazione e contentezza per essere riusciti a superare una prova così dura. Le endorfine ci hanno sopraffatto! Sbuca una chitarra. Si canta. Zito porta uno spumante per tavolo. Ha preso paura per ciò che il percorso poteva fare ai suoi clienti? Una vittima illustre c’e’: e’ Paolo che viene sconfitto più dall’influenza che dal percorso. La giornata termina con le ultime discussioni in tenda. Mauro e’ deluso dal suo tempo e urla di voler attaccare il giorno dopo. Paolo sembra più rilassato dei giorni precedenti. Francesco è euforico e Loris sa di dover sputar sangue nelle ultime due tappe. Io mi chiudo nel mio mondo di musiche. Stasera ascolto Giorgia e affido a lei i miei pensieri mentre contemplo le dune. Anche stasera c’e’ la luna piena. Passa una carovana di cammelli che trasportano materassini. Mi lascio cullare dall’immaginazione mentre riconosco le costellazioni e ci si potrebbe giocare con le mani da quanto appaiono vicine..Spengo l’ipod e sento il silenzio attorno a me. Il silenzio del Sahara. C’e’ una strana sensazione di pace fissando l’orizzonte nel deserto..”E’ tardi Rubens..dormi che domani devi volare”..il campo è immerso nel sonno degli atleti vinti dalla stanchezza.

 

 

 Alle 6,30 fa freddo mentre mi verso il caffè nella gavetta. Non riesco a bere in questo bicchiere. L’inox e la sabbia cambiano il sapore alle bevande. Alle 7.30 ho un check in infermeria. Vogliono rivedere le mie vesciche. Vorrebbero fasciarmi il piede ma preferisco incerottarmi e prendermi i rimproveri di Manuela e dei suoi bellissimi occhi azzurri che vigilano sulle mie piaghe. Sto male coi piedi ma sto benissimo con la testa. Oggi sono previsti 18 km. Sabbia e caldo da affrontare di petto. “Giù la maschera Rubens. Stringi i denti e corri”. Spingo sulle dune, spingo in salita e mi lancio dalla sabbia come un bambino al parco giochi. Non sento il male e al ristoro incrocio lo sguardo della figlia di Gianfranco Veronica che mi aveva soccorso al “lazzaretto” il giorno prima. Mi chiede a bassa voce come sto. Me lo chiede in punta di piedi e quasi per educazione. Sa che ho male e probabilmente si aspetta una risposta pessimistica. Rido e le rispondo: “Cosa gli hai fatto mettere nella siringa ieri?”. Scappo via. Più il garmin mi dice che vado veloce più mi faccio coraggio. 1h29’ di passi che si susseguono veloci. Recupero posizioni e mi infilo nell’arco al traguardo di camp3 a Camp Bibane correndo a perdifiato. Arrivo 27esimo a ridosso dei campioni. Sotto la doccia ghiacciata canto e penso a domani e a ciò che mi riserverà. L’infradito tra le vesciche è una maledizione ma chi se ne frega: solo ieri sembravo morto e oggi ho volato come un gabbiano. Mi siedo all’arrivo e osservo chi di continuo taglia il traguardo. Loris recupera altro tempo mentre Angelo si stira un polpaccio. La gara del giorno dopo è a rischio e si legge lo scoramento nei suoi occhi. In tenda si scherza e si ride. Anche gli ultimi formalismi son caduti. C’e’ chi spernacchia, c’e’ chi impreca..si parla di ragazze, come di politica, di runner, di avventure, di opportunità. Mauro ha un cognome pesante: Pittarello. E’ una bella persona. Solare, semplice e schietta e il fatto di essere ai vertice di un’azienda nazionale e’ un aspetto secondario rispetto alla persona. Paolo si rivela un ottimo compagno di viaggio; sempre disponibile ed estroverso. Soffre per non poter correre. Sembra un leone in gabbia. Loris invece è un vero sergente di ferro. Molto organizzato e preciso ha tutto cio’ che serve sotto mano. Ha un solo obiettivo: vincere. Non so se alla fine si sarà goduto il percorso come me lo sono goduto io..Francesco cerca sempre conforto. Gli hanno perso la valigia all’aeroporto e gira il campo con le cose contate e con ciò che gli prestiamo noi. Lui che ha girato il mondo da soldato si sente piccolo davanti all’impresa che sta compiendo. Ma piccolo non lo è affatto. E poi c’e’ Gianfranco che non è in tenda ma fa parte del team. 58 anni e una voglia incredibile di terminare in piedi le 4 tappe. Tanta forza e capacità di sopportare.
 Si scherza e si ride nella tenda 19. Siamo a tre quarti dell’impresa ma a nessuno viene in mente di sottovalutare l’ultima tappa che ci porterà a Ksar Ghilane.
 Intorno alle 17.30 un fotografo di sky preleva me, Mauro e Francesco. Ci portano sulle dune a circa mezzo km dal campo. La luce e' splendida e il fotografo sceglie con cura le dune ancora immacolate e senza l'onta delle orme dei podisti. Ci prestiamo volentieri agli scatti e l'unico sforzo e' stato rivestirsi da runner. Rivedo le foto qualche ora dopo: sono talmente belle che non mi riconosco. Da quel punto si gode uno scenario particolare: siamo a circa centocinquanta metri di altezza. Il campo è li' in fondo e dall'alto si nota il fermento degli atleti piccoli come formiche. Il cielo e' di un rosso fuoco cosi' come la sabbia che continua a disperdere il suo calore. Fermiamo Mustafa che sta conducendo tre dromedari diretti a Ksar Ghilane. Gli ci vorrà un giorno di cammino ancora. Gli regalo tre barrette energetiche e mi ringrazia come se avesse vinto la lotteria. Nel suo francese zoppicante non capisce cosa ci spinge a correre nel suo deserto (dice proprio “mon dèsert”...mi colpisce). La serenità che trasmettono i suoi occhi è contagiosa.
 La sera fa freddo. Scendiamo intorno ai tre gradi e per la prima volta percepisco umidità. Questa è l'ultima notte in tenda. Cambio musica nelle orecchie: ho bisogno di qualcosa di forte e ritmato: i Guns N'Roses mi travolgono e i miei pensieri volano all'immagine dell'oasi che ho idealizzato.
 La mattina del 13 marzo la sveglia risuona prima ancora del solito; la gara inizia alle 10. Sembra strano come sia facile adattarsi alla vita da campo “nomadi”; un tipo di giornata fatta di gesti semplici slegati spesso dalle lancette dell'orologio. Siamo lontani migliaia di km dal nostro mondo, dai nostri ritmi, dai nostri pregiudizi, dai nostri stupidi fastidi e dai binari sui quali siamo incanalati ogni giorno. Siamo lontani dalla nostra vita reale ma stamattina ci rendiamo conto che ci mancherà l'acqua ghiacciata, la puzza della tenda berbera fatta di pelle di cammello, il caldo del sacco a pelo, la fredda sabbia che la notte sporca i piedi. La vita nel campo termina quando carico le valigie sul camion che ci aspetterà a Ksar Ghilane. Impreco quando mi accorgo che ho spedito anche il mio Garmin e la sciarpa tecnica che protegge dalla sabbia spazzata dal vento. Mi maledico e maledico la mia superficialità. C'è molto, molto vento oggi e spira da sud verso nord ovvero specularmente alla nostra direzione di corsa. Mi ritrovo ad affrontare l'ultima tappa di 24km con ulteriori problemi che mi sono creato da solo. Devo correre affidandomi al mio respiro e non ai dati che mi da il mio gps. Devo crearmi a mano il ritmo di gara.
 Si parte puntuali. Il vento è fastidiosissimo, gelido oltre che contrario. Non fa caldo e il terreno per i primi 10 km e' pietroso e permette di correre. I miei piedi sulle pietre aguzze sembrano non lamentarsi. Sto bene e cerco di rimanere in gruppo per ripararmi dalla sabbia che vola ovunque. Ne mangio molta e mi accorgo di averne nelle orecchie. Chiedo ad un canadese a che ritmo corriamo. Mi mostra l'orologio. Siamo sotto i 5' a km e in quelle condizioni per i miei ritmi è un gran bel correre. Deciso di forzare ulteriormente l'andatura staccando il gruppetto. Mi impongo di non chiedere più informazioni a nessuno ne sulla distanza percorsa ne sui ritmi. Corro ascoltando ogni singolo metro il mio corpo e il mio respiro. E' una sensazione stupenda e mi sento parte del paesaggio che mi sto bevendo. Paolo al quinto km scende in corsa dalla jeep dei giornalisti capisce al volo il mio disagio con la sabbia nell'aria si leva lo sciarpone e me lo passa in corsa. Sono salvo e il mio ritmo del respiro diventa regolarissimo
 Penso..penso al sogno che sto vivendo..penso a chi mi spinge da casa..penso ai miei piccoli problemi ..penso ai miei progetti.
Mi ritrovo di colpo al ristoro dei 15km. Il tempo è volato e mi rendo conto che affidandomi alle sensazioni e abbandonando la tecnologia sto andando bene. Per un informatico abbandonare la tecnologia è un paradosso..

 

 

Dopo il ristoro lo scenario cambia radicalmente. Le pietre lasciano spazio alle dune. Questi sono erg. Le dune alte che tutti temono. Qui la sabbia è ancora più soffice e i piedi vi ci sprofondano fino alle caviglie. Il ritmo della corsa diventa da subito irregolare. Le mie ghette respingono la sabbia. Molti altri atleti saranno costretti a levarsi le scarpe piene di sabbia. Io no. Il vento soffia ancora molto e ancora contrario. I miei piedi, come due soldatini, continuano a spingere e non mi abbandonano. A circa 5 km dall'arrivo mi trovo in una depressione sotto le alte dune e noto che hanno piantato la bandiera segnalatrice sopra una collina di duecento metri circa. Sono solo. Davanti ho solo i campioni che per me sono inavvicinabili. Devo orientarmi da solo tra le dune e non ho riferimenti umani da seguire. La nuova angolazione mi offre uno scenario inquietante: piccoli esserini che scalano la collina sopra la quale c'è un fortino romano. Le formiche in questo caso sono i campioni che stanno lottando per la vittoria. Mi ritrovo presto ai piedi della collina ed è impressionante quanto sia pendente. I piedi scompaiono nella sabbia e io impreco per l'equilibrio precario mentre il caldo continua ad aumentare. Ci arrivo al bandierone. Lì una comitiva d bikers mi applaude. Mi giro e vedo la depressione che ho lasciato alle spalle..un vero e proprio catino che pullula di atleti che affannosamente tentano l'ascesa. Molti con le scarpe in mano. Da sopra lo spettacolo che mi si offre è un'immagine che non dimenticherò per tutta la vita: l'immensità del deserto infuocato e in lontananza quella striscia di vegetazione che si estende perpendicolare alla direzione di corsa. Ksar Ghilane. Inizio la discesa che e' vertiginosa. L'adrenalina è alle stelle e ormai ha pervaso ogni centimetro del mio corpo. Devo attaccare per gli ultimi 3 km. “Cosa vuoi che siano tre km?”. Corro sulle creste delle dune cosi' come mi aveva consigliato Paolo. Ai miei occhi gli alberi si avvicinano sempre più. Supero un portoghese in difficoltà..sta vomitando piegato sulla sabbia. Decido di non fermarmi ad aiutarlo..ho già regalato tanti minuti al fair play in questi giorni..mi vergogno un po' ma proseguo.. Le dune lasciano spazio ad un terreno accidentato ma ben impattato. Sto entrando nell'oasi. Ci entro a ginocchia alte e sorridendo. Paolo e' appena fuori dal la pinetina e mi incita.

 

 

E' così che dovrebbe essere sempre..i campioni che danno l'esempio agli amatori..La vegetazione dell'oasi e' squarciata dal rettilineo che conduce diretto all'arco del traguardo. Mentre mi ci infilo, arrivando 24esimo, non riesco ad esprimere ciò che vorrei. Mi rivedo la sera nel filmato di sky mentre mi infilano la medaglia al collo. Troppo professionale e serio. Dietro la facciata c'è una voglia di urlare al mondo il mio orgoglio per aver terminato questa gara. Ho i piedi spaccati ma mi sento forte e mi vergogno a dirlo. Penso solo a me stesso mentre mi immergo nel laghetto dell'oasi. L'acqua e' bollente..la birra che mi hanno messa in mano è ghiacciata. Arrivano gli altri. C'è chi piange travolto dalle emozioni e dallo sforzo. C'è chi urla e si abbandona a gesti plateali. Li osservo dal laghetto. Loris è secondo assoluto. Angelo arriva quinto malgrado lo stiramento. Mauro arriva con le scarpe al collo e un sorriso da incorniciare. Francesco vola sulle ali dell'entusiasmo. Gianfranco taglia il traguardo con un urlo liberatorio. Ai margini Paolo applaude anche l'ultimo dei corridori..
 La sera la grande famiglia dei maratoneti si compatta alla cena di gala. Molti hanno ancora la medaglia al collo. Ce l'avranno ancora quando arriveranno in Italia. Telefono a mia moglie e saluto i miei bambini. Mi sono sempre mancati e mi promettono feste all'arrivo. Il mondo qui è raggiungibile e il mio cellulare continua a “bippare” con gli in bocca al lupo dei giorni precedenti parcheggiati in chissà quale parte del mondo..Luca e la Meris e il loro panificio Garbo della Guizza mi promettono pane e paste per rimettermi in forma; Franco il mio collega d'ufficio mi ha messaggiato pur sapendo che non avrei ricevuto immediatamente gli sms. Un modo originale di seguirmi oltre che sul web. Federico che mi fa commuovere scrivendo che e' orgoglioso di essere mio amico. Gerardo e la sua famiglia che mi accolgono come un eroe agli arrivi internazionali di Tessera. Un piccolo mondo che si è stretto attorno a me e che, assieme a tutti quelli che dimentico ora, ha corso al mio fianco in questi quattro giorni.
 Ho scritto che dietro ogni persona del campo c'è una storia e delle motivazioni che lo hanno portato a vivere questa esperienza. Io non cerco rivincite non ne avrei i motivi. Ho bisogno invece di sentirmi vivo tutti i giorni in quest'unica vita che assomiglia tanto ad una maratona. Un percorso che può assomigliare alle dune che ho calpestato nel deserto. Tanti sali scendi da affrontare di petto con la serenità e la competenza che ognuno di noi è in grado di mettere. Ci sono momenti in cui si avrebbe voglia di mollare tutto e abbandonare la corsa cosi' come ce ne sono altri nei quali non si smetterebbe mai di respirare a pieni polmoni.
Nella mia piccolezza, al cospetto del Sahara e dei suoi silenzi, mi sono sentito enormemente vivo pur lontano da ciò che ci insegnano sia il progresso.
Nello zainetto riporto in Italia un bagaglio di emozioni e sensazioni che, come altre esperienze forti, mi hanno arricchito a livello umano. Queste corse estreme toccano vari pilastri, spesso invisibili, della nostra esistenza: il dolore, le speranze, gli affetti, la serenità, la semplicità, l'adattamento, l'autostima e altro ancora. In gara si è soli a dover gestire tutto ciò e, sotto il traguardo, la vittoria riguarda solo te mentre il peso specifico dei valori in cui credi aumenta a dismisura>>

APPENDICE NEWS/ INCONTRO CON MARATONETA (di Gianmaria Alberghini, studente e sindaco dei Ragazzi di Crespino, "sul Corriere della Scuola di Crespino, giugno 2012).
<<Giovedì 19 aprile 2012, in sala polivalente vi è stato l’incontro con un maratoneta internazionale, Roberto Rubens Noviello. Lui ci ha spiegato in cosa consiste il suo lavoro, anche la sua missione, cioè aiutare le popolazioni del Sahara occidentale. Questa zona è stata motivo di contese e di guerre per il suo territorio, poiché ricco di giacimenti petroliferi, affacciata al mare che permette il collegamento con altri stati, ma è anche una delle zone più pescose. Roberto quindi si occupa di aiutare la popolazione composta di donne e bambini, mentre gli uomini sono impegnati a difendere l’intero confine. Anche se questa zona è stato  frutto di mire espansionistiche è un paese molto arido: per avere l’acqua bisogna spostarsi in altre regioni. Le abitazioni del Sahara sono povere e solo pochi si possono permettere un po’ di ricchezza. I bambini durante il giorno giocano soprattutto con macchine rotte e i pochi animali che ci sono, sono le pecore appartenenti allo Stato. Qui le missioni di pace e i grandi container  di oggetti che ogni mese arrivano, sono molto importanti e coprono circa la metà del fabbisogno mensile. Tra le altre cose  vi è una scuola che aiuta i bambini con handicap a imparare e ogni anno Roberto, ma anche altri volontari come lui, aiutano i Saharawi,  partecipano alla maratona e grazie a questa riescono a guadagnare dei soldi per la popolazione del Sahara e sperano che un giorno tutto si possa risolvere. Roberto Rubens Noviello, ha scritto un libro intitolato “la corsa verso il mare” che parla delle sue avventure e della gente del Sahara.>>

 

 


 

EXTRATIME by SS/ La cover è per il Saharawi People; per certi versi basta cliccare l’immagine che mostra Rubens Noviello tra “Libro & Libre” in video.
Poi per la fotogallery, al di là di quelle che ho scattato nella ‘sua’ serata crespinese,  ringraziamo il work in progress by Rubens, perché le sue immagini tra “Maratona & Deserto” mostrano che… (pensiero di Sergio Endrigo cantautore) “l’Africa è lontana, vista dalla luna passa una eternità, strada che porti al mare lasciami qua, passa una bandiera, forse è quella vera, vende la fortuna, vende anche la luna, quanto ti costerà? Perché non dormi fratello? La notte è chiaaaara…”.
Così come potete vedere, in fotogallery partiamo innanzitutto dalla cover del Libro “La corsa verso il mare” scritto da Rubens per raccontare l’odissea di un popolo in fuga. Cioè il popolo Saharawi che vive ‘ nelle condizioni raccontate da Rubens, in quell’angolo del deserto documentato dalla ‘cartina geografica’ , lottando per arrivare al mare, cioè all’Oceano Atlantico. Un popolo in cui le protagoniste sono le donne, quelle che vi mostriamo nelle due foto successive. Per questo ha particolarissimo significato la Saharawi Maraton di cui vi proponiamo un flash, sempre tratto dal libro di Roberto Rubens Noviello.
L’autore e il maratoneta che ‘ha sentito il dovere morale’ anche di andare in giro per il mondo ( perciò vi proponiamo 4 flash della serata di Crespino) per raccontare quali sono le condizioni e soprattutto le ‘privazioni’ nelle quali è costretto a vivere ancora il popolo Saharawi.
L’ultimo flash è per Rubens Noviello ‘ultramaratoneta’ di San Nicolò dove allena anche i ragazzini della locale società calcistica.


Mattia Durli & Rubens Noviello & Sergio Sottovia
www.polesinesport.it