Isidoro Quaglio, lanciato da Maci Battaglini anche a Tolone e Bourgoin. Poi scudetto con la Sanson 75/76 di Saby. E ‘tanta’ Nazionale…


19/04/2011

Quaglio, uno sportivo a tutto campo che si è meritato la HAKA! Come ben spiega ‘rugby writer’ Raffaello Franco. E un amico per tanti, fratello Doro, compreso il sottoscritto col quale, da compagni di squadra ‘interaziendale’ , lui il corazziere/bersagliere ha giocato a calcio, da ‘portiere coi guanti’ sul campo Tre Martiri di Rovigo. Erano i primi anni ’70, e poi ricordo che a lui ho fatto la prima intervista sportiva/radiofonica su TRP (Tele Radio Polesine), la prima radio polesana del ‘precursore’ Piermarco Manfrinati.
Aggiungo solo che Doro ha trasmesso la sua stessa passione ‘ovale’ alla moglie Gisella e alla figlia Enrica, ‘le signore delle Posse e del Rugby’ a livello nazionale.  E che , dopo essere stato ‘gran corazziere’ , Doro è entrato da ‘bersagliere’ nella leggenda della Rugby Rovigo, amato dalla gente tanto da diventare assieme a Maci Battaglini la ‘icona’ del “Mondo Rugby Rovigo” . Come dimostrano le ‘facce’ di Maci e Doro raffigurate sulla tribuna del campo intitolato a Maci Battaglini, vale a dire ‘uniti per sempre’ nei cuori della tifoseria rossoblu.
Ma ecco la DORO QUAGLIO STORY by Raffaello Franco, leit motiv “Cuore, Storia,Leggenda”.

ISIDORO QUAGLIO IL BERSAGLIERE “DORO” (1942 -2008)/ LA SUA STORIA
<< Tre anni fa, proprio nel mese d’Aprile, lasciava questa vita terrena Isidoro Quaglio, uno dei grandissimi personaggi della Rugby Rovigo degli anni d’oro. Casualmente, in questi giorni di “ferie” da me utilizzati per sistemare la nuova casa dopo il mio rientro da uno straordinario viaggio di nozze, scartabellando nel mio personalissimo archivio sportivo e riemersa dalla profondità delle pile di libri, rassegne stampa, ritagli di giornali e riviste una pubblicazione risalente all’ormai lontano 1976.
Titolo: “Rugby come Rovigo”. L’opera fu ideata per celebrare la conquista dell’ottavo tricolore della storia rossoblu e nacque da un’ idea del fotografo Paolo Gioli, autore di tutte le immagini contenute nel volume e di Luciano Ravagnani, illustre giornalista specializzato nel raccontare le gesta degli eroi della palla ovale.
La copertina, ritrae un aitante giovane dai baffi importanti e dal volto raggiante di felicità. A torso nudo porta sul capo, con orgoglio, un cappello piumato da bersagliere. Sullo sfondo sventola una bandiera rossoblu e più sotto si scorgono decine di braccia festanti e trionfanti a sostenerlo.

Il nome di quel ragazzo era Isidoro Quaglio, o meglio, “Doro” Quaglio com’era da tutti conosciuto. Perché Quaglio, anche a distanza di “qualche” anno, era ”Doro” e basta e lo era per tutti!
Seconda linea potente che superava il metro e novanta d’altezza, aveva giocato una delle sue migliori stagioni proprio in quel campionato 1975/76. Aveva già compiuto i 33 anni “Doro”, ma garantiva comunque all’allenatore Julien Saby 22 partite senza flessioni di rendimento. Peccato che quello sia stato l’unico scudetto vinto da un giocatore del suo calibro, uno che non si tirava mai indietro. Proprio così, perché “Doro” non era una seconda linea qualunque, anzi! Nel suo palmares poteva vantare la bellezza di 15 presenze con la maglia azzurra, se contiamo solo i test ufficiali, oltre che ai 167 incontri in serie A con i rossoblu e senza contare i campionati disputati con la maglia del Viro Bologna e quelli giocati in Francia.
“Doro” Quaglio iniziò a giocare a rugby nel 1956 ed a soli 16 anni fece il suo debutto in prima squadra contro il Brescia. Anche lui abitava a San Bortolo,  il quartiere rodigino che diede i natali a molti di quegli atleti che fecero la storia del rugby. Il capostipite, il più grande di tutti, quel “Maci” Battaglini che incarna ancora oggi l’icona della palla ovale polesana. Fu proprio “Maci” che un po’ lo adottò e lo prese sotto la sua ala protettrice tanto da fargli “studiare” ogni fondamentale del rugby e convincerlo che, forse, l’ambiente del Rovigo era troppo stretto per lui. Gli fece allora ripercorrere le sue orme e lo portò in Francia al Tolone dove Mario Battaglini, per la tifoseria e la stampa locale, era ancora “le grand Batà”. Anche “Doro” lasciò un bel ricordo in terra transalpina, faticava però a resistere al richiamo dei “Bersaglieri” e per questo rientrò per la seconda volta a Rovigo.

Mancava infatti da casa da circa nove anni. Nel 1959 infatti, non ancora diciottenne, smise con il rugby per scegliere la vita militare. Destinazione Roma: corpo Carabinieri, Reggimento Corazzieri. “Doro” entrò così nella guardia del Presidente della Repubblica e ci resterà per sette anni. Ma lo sport, non solo il rugby, era scritto nel suo DNA. Anche prima che la sua malattia iniziasse ad avere il sopravvento, lo si poteva tranquillamente incontrare al “Gabrielli” per seguire le vicende del Rovigo Calcio, come anche in qualsiasi altro luogo dove si stesse celebrando un evento sportivo che si trattasse di pugilato, basket od altro.
A Roma, invece, si dedicò al canottaggio. Armo “Otto con”, senza dubbio la più spettacolare delle imbarcazioni e, nel 1963, vinse pure il titolo italiano diventando probabile olimpionico per i Giochi di Tokyo del 1964.
La fatica. Questo il filo conduttore della vita sportiva di “Doro” Quaglio. Il rugby prima, il canottaggio poi. Sport che richiedono sacrifici enormi ai loro praticanti. Ma a “Doro” tutto questo non bastava. Qualche anno prima il ferrarese Nando Strozzi, il famoso maestro di boxe della Pugilistica Rodigina, era riuscito ad impostare la guardia al nostro “Doro”. In quegli anni il connubio tra rugby e pugilato a Rovigo era molto solido grazie anche all’accogliente atmosfera del Bar “Luce”, luogo deputato a ritrovo di pugili e rugbisti appunto.

Grazie a questa, diremmo oggi, “joint venture” non era raro assistere a pugili che saltuariamente si dedicavano anche al rugby o rugbisti che si impegnavano in incontri di boxe. Anche “Doro” si cimentò nella “noble arte” per qualche ripresa. Il “battesimo del fuoco” sul ring avvenne quand’era ancora in forza ai carabinieri:«Un giorno – ricordava nell’intervista-story che mi rilasciò per la rivista Area Sport – avevano bisogno di qualcuno che allenasse un pugile. Mi videro grande e grosso, dissi che avevo giocato a rugby. Mi risposero che il rugby era un po’ come il pugilato e mi spedirono sul ring. Non andò benissimo! Comunque, successivamente, sostenni anche altre riprese. Le tre più terribili che io ricordi, sono state quelle disputate contro Samuele Donatoni che si stava preparando per l’incontro con in palio il titolo italiano dei pesi massimi. Sarà stata un po’ la stanchezza ed un po’ l’inesperienza ma ricordo ancora i pugni di Donatoni che arrivavano spediti come su un’autostrada, violando continuamente la mia guardia».
Ma l’avventura sportiva di Quaglio non si sviluppò solo come atleta. Dopo lo scudetto vinto con il Rovigo infatti, la sua carriera di giocatore si avviò verso il tramonto ed il nostro “Doro” cominciò così a dedicarsi all’attività di allenatore. Venne chiamato anche da Roy Bish come suo vice in Nazionale e quando quest’ultimo lasciò l’incarico, venne nominato lui Commissario Tecnico per un brevissimo e sfortunatissimo periodo.

In “panchina” esordì con una bella vittoria sulla Polonia. Nell’incontro successivo invece, subì una pesante sconfitta contro la Romania che di fatto chiuse la sua breve pagina da CT ma non quella di tecnico. Infatti alla fine degli anni ’70, in seguito ad alcune incomprensioni con la dirigenza della Rugby Rovigo, andò ad allenare il CUS Ferrara in serie C2 dove trovò un ambiente allo stremo e che poteva disporre solamente di 10-12 atleti. Pian piano Quaglio iniziò a costruire una squadra come si deve. Per tre stagioni lottò in serie C2. Fortunatamente il gruppo ed i dirigenti della squadra estense iniziavano a crescere numericamente sempre di più. “Doro” incominciava finalmente a vedere i primi frutti del suo straordinario lavoro e l’ambiente era diventato molto stimolante. Mancava però ancora quel qualcosa in più; quel qualcosa che facesse fare alla squadra il salto di qualità. Da Rovigo allora fece arrivare Alessandro e Narciso Zanella, che erano alla fine della loro carriera agonistica, e grazie anche alla loro esperienza il CUS Ferrara iniziò a macinare gioco ed avversari. Con “Doro” in panchina i bianconeri vinsero il campionato di serie C2 senza subire sconfitte. Nella stagione successiva arrivò anche la Coppa Italia di serie C e quella di B (primi su 72 squadre partecipanti in tutta Italia!) e poi, l’anno successivo, conquistarono anche il campionato universitario. Dopo questo exploit, Isidoro Quaglio, decise che era giunto il momento di cambiare aria. Lasciò comunque Ferrara con la consapevolezza di aver seminato qualcosa di buono e che il frutto di quanto fatto era stato raccolto.

Questa la story in pillole del grande “Doro”. Ma come nacque il rugbista Isidoro Quaglio? Avvenne quasi naturalmente quand’era ragazzo ed il rugby, a Rovigo, calamitava le attenzioni di gran parte degli sportivi. E poi, per uno che era nato e cresciuto nel quartiere di San Bortolo, lo sbocco nel mondo della palla ovale era quasi naturale. La “Banda Maci” costituiva l’ossatura dei “Bersaglieri” in quegl’anni ed era composta da tutta gente di San Bortolo. In quel quartiere l’unica palla riconosciuta aveva la forma ovale. Una grande passione dunque assorbita fin da bambino che ad un certo punto però, come detto, venne temporaneamente interrotta per fare una scelta importante come quella di arruolarsi nell’ “Arma”. La scelta fu un po’ condizionata dal passato di suo padre che era stato nei Corazzieri Reali (così come lo era stato anche suo cugino, n.d.r.) ed il suo sogno era che anche il suo Isidoro entrasse in quel Reggimento così importante.

A dirla tutta anche a “Doro” quest’idea non dispiaceva, anche perché voleva a tutti i costi continuare a fare sport e sapeva che i Corazzieri avevano un centro remiero molto importante e competitivo nel quale gli sarebbe piaciuto entrare. Così, a 17 anni, fece la sua scelta e si decise ad inoltrare la domanda di arruolamento nei Carabinieri. Entrò così prima nel Reggimento dei Carabinieri a cavallo ed in un secondo momento, vista la sua altezza (191 centimetri, ndr), fu assegnato al Reggimento Corazzieri. Poté così realizzare il suo desiderio salendo su quell’ “otto con” che lo portò al tricolore nel 1963 e ad un passo dalle Olimpiadi di Tokio. Quello era un armo incredibile che grazie alla conquista del titolo italiano automaticamente divenne probabile olimpico, ossia quello favorito a prendere il via nella competizione sportiva più importante al mondo.
Per “Doro” ed i suoi compagni fu una soddisfazione incredibile. Purtroppo però, per vari motivi, la Federazione Italiana di Canottaggio propose di mandare alle Olimpiadi un equipaggio misto composto dai migliori atleti dei centri remieri che andavano allora per la maggiore: Corazzieri, Marina Militare, Finanza, Falk, Guzzi ecc. Il Comandante del gruppo canottieri dei Carabinieri volle invece difendere a tutti i costi le ragioni del suo armo e per puro spirito di corpo si impose alla Federazione dicendo che:”O al’Olimpiade andavano tutti corazzieri o non avrebbe mandato nessuno”.

La Federazione allora propose una selezione pre-olimpica che si disputò a Sabaudia. Corazzieri contro un’imbarcazione “mista”: chi avesse vinto la sfida sarebbe andato a Tokio. L’ “otto” dei Corazzieri era sicuro dei propri mezzi, anche perché vantava davvero degli ottimi tempi. Quel giorno invece vinse per un’inezia l’armo “misto” e così il sogno olimpico del corrazziere “Doro” si infranse. La Federazione chiese comunque di poter utilizzare anche qualche elemento dei corazzieri per formare un equipaggio ancor più competitivo, ma il Comandante fu inamovibile nelle sue posizioni:”O tutti corazzieri o nessuno!” Per “Doro” fu una grande occasione per poco mancata. Successivamente però, ebbe il tempo di rifarsi grazie al suo antico amore: il rugby. Ne risentì il richiamo e tornò sui suoi passi e dopo sette anni di onorato servizio nei corazzieri, fu assegnato alla Compagnia carabinieri di Bologna e tornò così alla palla ovale nella locale squadra del Viro che, guarda caso, giocava coi colori rossoblu.

Dopo una stagione a Bologna, su consiglio di “Maci” Battaglini, tentò la fortuna in Francia congedandosi dall’“Arma” per andare al Tolone. In Francia però la strada per la prima squadra era sbarrata da una miriade di campioni, molti dei quali nazionali francesi e la prospettiva era quella di disputare un onesto campionato riserve. Accolse allora con entusiasmo il suggerimento di monsieur Douprex che gli consigliò di andare al Bourgoin, piccolo club recentemente promosso nella massima serie. Li trovò i suoi spazi disputando un buon campionato anche se molto duro ed impegnativo. L’anno successivo però rispose alla chiamata dei “Bersaglieri”. «Quando i “Bersaglieri” chiamano – ripeteva spesso - si può rispondere solo “signor-si”». Stava infatti già ripartendo per Bourgoin, quando gli avvocati Rizzieri e Ponzetti riuscirono a convincerlo a rientrare tra le fila del Rovigo che stava vivendo un grave periodo di crisi e necessitava di uomini d’esperienza. Fu una scelta azzeccata che dopo circa otto anni gli regalò la gioia di uno scudetto. Era il 1968 e dopo l’esperienza francese tornò così a giocare a Rovigo dove trovò una situazione davvero difficile: una squadra in crisi di risultati,  di gioco e d’identità. Molti dei vecchi campioni avevano smesso. Dei “vecchietti” restavano solo Bellinazzo, Vanzan, Dal Martello e pochi altri, mentre la maggior parte degli altri erano praticamente ancora dei ragazzini e agli avversari non pareva vero di restituire ai rossoblu tutte le umiliazioni che avevano dovuto subire in passato. Con il passare degli anni però i giovani si forgiarono e con qualche innesto di scuola straniera ben azzeccato, gente del calibro di Naudé, Wiese e Thomas,  Rovigo tornò a dominare in campionato dando anche l’impulso per gli scudetti degli anni a venire.
Non solo Francia o Rovigo però nella carriera di “Doro” ma anche tanta Nazionale. Disputò infatti più di 50 incontri con le varie selezioni azzurre, 15 test match di cui la metà giocati nella prima tournée ufficiale italiana in Sud Africa nel 1973. Fu una tournée memorabile per gli azzurri, un’interessante e decisa virata per il rugby nazionale, una prima spinta che ci ha portati progressivamente verso il Sei Nazioni.

Quella tournée però non partì sotto i migliori auspici. La selezione azzurra venne invitata dalla Federazione Sudafricana in quanto, a causa della legge sull’apartheid, il mondo sportivo internazionale evitava, per protesta, ogni contatto con quella realtà. L’allora presidente federale Luzzi Conti, pur tra mille avversità, accettò con entusiasmo l’invito dei sudafricani, anche se è facile capire che si tirò dietro le ire di molti dei consiglieri federali, del C.O.N.I. e del mondo politico. Le perplessità della vigilia non erano legate solo a questioni di apartheid, ma anche a questioni tecniche che mettevano in preventivo una disfatta su tutti i fronti: sul piano morale e su quello dei risultati. Il prezzo da pagare sarebbe stato quello di mettere a repentaglio l’incolumità fisica di molti giocatori. Ogni squadra che avrebbero dovuto affrontare gli azzurri era imbottita infatti di almeno sei o sette “springboks”. Si andò comunque avanti nel progetto Sudafrica. Non era una questione di politica, ma solo la nostra prima grande occasione per poterci misurare con una realtà che fino a quel momento avevamo potuto vedere, talvolta, solo in televisione. Di contro i sudafricani vollero premunirsi ed a quattro mesi dall’inizio della tournée inviarono un loro tecnico in Italia per preparare al meglio l’evento evitando così di far arrivare in Sudafrica una nazionale italiana sprovveduta ed impreparata.
Amos Du Plooy, ex pilone springboks, era una persona di rara intelligenza. Laureato in matematica possedeva doti di fine psicologo. Prese la sua missione con entusiasmo e vedendo gli italiani allegri, ridanciani, sempre pronti a far bisboccia ma poco inclini al sacrificio, iniziò una sua particolare cura. Visitava personalmente ogni club per visionare, interrogare e provocare mettendo in guardia su quello che si sarebbero trovati in Sudafrica. In buona sostanza non sarebbe stata una passeggiata, ma se la nostra nazionale avesse seguito i suoi consigli, la tournèe avrebbe avuto successo.

Preparava allenamenti molto duri, usando metodi da marines. Poco prima di partire per il Sudafrica i selezionati si recarono in ritiro ad Ostia. Svolsero gli allenamenti presso il Centro Sportivo della Guardia di Finanza e dopo una settimana di sedute a dir poco estenuanti ed al limite della sopportazione l’ultimo giorno, tornando in albergo, Du Plooy fece fermare il pullman ad un centinaio di metri dall’albergo dov’erano alloggiati e li fece scendere. A piedi li condusse verso la spiaggia. Una volta arrivati, si trovarono davanti ad un percorso preparato precedentemente sul quale spiccavano quattro dune di sabbia alte più di 20 metri. Amos Du Plooy salì sulla più alta impartendo l’ordine d’iniziare a correre. Il primo ed il secondo giro non andò male. Gli azzurri continuavano a correre e contemporaneamente a parlare e scherzare tra di loro. Du Plooy impassibile, dall’alto della sua posizione urlava:”Dai dai, continuate pure a parlare!” Al quarto giro, infatti, non c’era più fiato per ridere e nemmeno per parlare. Dopo più di 20 giri erano sfatti! Alla fine Amos fu molto soddisfatto: aveva voluto mettere alla prova la loro capacità di sopportazione alla fatica.
Grazie al lavoro svolto dall’ex pilone sudafricano la tournée non andò male. Gli azzurri non sfigurarono con nessuno ed il loro gioco fu molto apprezzato in Sud Africa tanto che la stampa locale li seguiva costantemente. “Doro” amava ricordare che durante una conferenza stampa un giornalista chiese a Du Plooy che tipo di giocatore fosse Isidoro Quaglio. Amos rispose che non era un grande giocatore ma un giocatore come lui sarebbe stato utile in qualsiasi squadra del mondo. Per lui fu un complimento bellissimo perché sapeva che Du Plooy poneva molta fiducia in lui. Magari sarà stato semplicemente per il fatto che forse, a 33 anni, era il più “vecchio” della spedizione al pari di Bollesan, il capitano nella tournee sudafricana. I compiti che gli vennero assegnati da Duplooy erano un po’ simili a quelli di un “caporale di giornata”: “Doro” doveva gestire le sveglie, organizzare i trasferimenti da una città all’altra e curare il programma giornaliero. Inoltre, considerato il fatto che possedeva qualche dote canora, durante i ricevimenti ufficiali ad un cenno di Du Plooy aveva il compito di dare il “la” per animare la serata e scaldare l’ambiente a dovere.

“Doro” Quaglio, perfetto “uomo spogliatoio”. Uno che sapeva fare squadra. Un personaggio unico ed indimenticabile, capace di riempiere lo stadio intitolato al suo mentore “Maci” Battaglini anche nel giorno tristissimo del suo funerale. Una cerimonia funebre particolare celebrata eccezionalmente dal vescovo della diocesi di Adria e Rovigo Lucio Soravito de Franceschi sul prato del “tempio” del rugby italiano. La bara, scortata dal picchetto d'onore dell'Associazione Corazzieri in congedo, era stata posata a centro campo e sopra il feretro venne posata la maglia rossoblu numero 4 e quella della nazionale italiana e poi tanti fiori, molti adagiati anche lungo quella linea di touche che in tanti anni l’aveva visto combattere e contendere la palla agli avversari.

Da brividi i sacri onori neozelandesi ricevuti da Luc Mahoney e Benjamin Bunse (il primo attuale giocatore della Femi Cz Rovigo e l'altro ex giocatore del Villadose, n.d.r.) con la Haka, la danza dei guerrieri maori:
”Batti le mani contro le cosce
Sbuffa col petto
Piega le ginocchia
Lascia che i fianchi li seguano
Sbatti i piedi più forte che puoi.
È la morte, È la morte! È la vita, è la vita!
È la morte, È la morte! È la vita, è la vita!
Questo è l'uomo dai lunghi capelli
è colui che ha fatto splendere il sole su di me!
Ancora uno scalino, ancora uno scalino, un altro
fino in alto, il sole splende!”
Come splende sugli scalini di quella tribuna che oggi è dedicata proprio ad Isidoro Quaglio, gli stessi scalini che ospitano le immagini ritratto di due straordinari “Bersaglieri”: “Maci” Battaglini e “Doro” Quaglio.
Da li potranno continuare a guardare per sempre le imprese dei rossoblu, a sostenerli e ad incitarli come solo loro sapevano fare. Quelle effigi sono lo specchio che riflette le loro immagini dal cielo e che ce li fanno sentire ancora insieme a noi, presenti nei nostri cuori di sportivi e vicini ai rossoblu che stanno veleggiando verso un’altra indimenticabile stagione.
“Ka mate, Ka mate! Ka ora, Ka ora! (È la morte, È la morte! È la vita, è la vita!)”>>

EXTRATIME by SS/ La cover è per Doro Quaglio ‘rugbysta coi baffi’. Quindi nella fotogallery eccolo agli ‘inizi carriera’ in tuta con Maci Battaglini. Poi in foto sequenza sul campo, prima in fuga, poi nei saluti pre-match, quindi in posa ‘notturna- amichevole’ a Cremona e grintoso in touche con Giancarlo Checchinato nel 1974. A questo punto arriva l’anno dello scudetto, ed eccovi la festa coi tifosi, la cover by Gioli sul citato libro fotografico “Rugby come Rovigo”  e l’onore di quel team –scudetto 75-76 come da ‘calendario degli scudetti’ meritoriamente pubblicato in questo 2010-11 targato per la prima volta Delta Rovigo Rugby con la speranza di completare la serie ‘apostoli’.
Onorato anche Doro Quaglio in veste di vice Ct della Nazionale ( a Brescia, 16.5.1976, by Gioli), onoriamo infine l’amico Doro, mostrandolo in foto assieme a Ivan Malfatto, Lauro Pavanello, Saverio Girotto in una serata Panathlon Club Rovigo. Il posto dove, sua moglie Gisella (al microfono) ha presentato quest’anno, al fianco del Ct Di Giandomenico, Carlo Checchinato e Luigi Costato, l’evento “Match della Nazionale Italiana femminile a Rovigo’..
In chiusura dedichiamo a Doro Quaglio il ricordo – immagine della sua tifoseria rossoblu, sulla tribuna dove le immagini di Maci Battaglini ( a sx) e Doro Quaglio (a dx) sono le icone-leggenda della storia dei ‘bersaglieri’.



Raffaello Franco
www.polesinesport.it